REPUBBLICA ITALIANA I N N O M E D E L P O P O L O I T A L I A N O La Corte d'Appello di Brescia, ### composta dai ###: Dott. ###ssa ### rel. ###ssa ### ha pronunciato la seguente S E N T E N Z A nella causa civile promossa in grado d'appello con ricorso depositato in ### il giorno 29/07/20, iscritta al n. 185/20 R.G. ### e posta in discussione all'udienza collegiale del 19/05/2022 d a , in persona del titolare e legale rappresentante, rappresentata e difesa dall'Avv.to ### di ### domiciliat ###atti. RICORRENTE APPELLANTE c o n t r o , rappresentata e difesa dall'Avv.to #### e ### di ### domiciliat ###atti. RESISTENTE APPELLATA In punto: appello a sentenza n. 201/20 del 25/06/20 del Tribunale di ### OGGETTO: Licenziamento individuale per giusta causa ### - 2 - Conclusioni: Della ricorrente appellante: Come da note scritte ### resistente appellata: Come da note scritte SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con sentenza n.201/2020, pubblicata in data 29 giugno 2020, il Tribunale di ### in funzione di giudice del lavoro, ha sostanzialmente accolto il ricorso proposto da nei confronti della ex datrice di lavoro, titolare dell'omonima sartoria, e ha condannato quest'ultima al pagamento in favore della ricorrente della somma complessiva di € 4.162,70, a titolo di differenze retributive, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla cessazione del rapporto di lavoro al saldo; ha altresì accertato l'illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato alla ricorrente e ha dichiarato risolto il rapporto di lavoro, condannando la convenuta al pagamento in favore della di un'indennità risarcitoria di importo pari a n.4 mensilità commisurate all'ultima retribuzione utile per il calcolo del TFR (quantificata in € 714,82), oltre interessi legali e rivalutazione monetaria, e oltre spese di lite.
Quanto al licenziamento, il Tribunale ha ritenuto che la convenuta avesse violato il termine previsto dall'art.42 del CCNL di settore ### in virtù del quale le sanzioni disciplinari avrebbero dovuto essere comminate entro n.12 giorni dalla data delle ### - 3 - giustificazioni rese dal dipendente, diversamente queste si sarebbero ritenute accolte.
Ha rilevato che nella specie la contestazione disciplinare era stata ricevuta dalla il 22 febbraio 2019 , la l avoratrice aveva reso le giustificazioni in data 4 marzo 2019 e la lettera di licenziamento, datata 20 marzo 2019, era stata spedita il giorno successivo, con evidente mancato rispetto del suddetto termine, scaduto il 16 marzo 2019.
Dopo aver rilevato essere priva di fondamento la tesi della convenuta secondo cui la norma del ### non si sarebbe applicata al licenziamento disciplinare, in quanto smentita dal dato letterale della disposizione contrattuale, ha rilevato che la tutela applicabile nella specie era quella prevista dall'art.3 del d.lgs.23/2015, con conseguente estinzione del rapporto di lavoro e diritto della lavoratrice ad un'indennità risarcitoria che ha ritenuto congruo quantificare come sopra, anche in ragione dei principi di cui alla sentenza della Corte Costituzionale n.194/2018, di parziale incostituzionalità della norma.
Una volta accertata l'illegittimità del licenziamento per detta ragione, il giudice ha poi affermato che non vi era prova della condotta illecita posta a fondamento dell'atto espulsivo ed attribuita alla lavoratrice, di sottrazione di denaro dalla cassa del negozio della pe r cu i era venuta meno la possibilità di quest'ultima di opporre in compensazione il proprio asserito credito risarcitorio di € 6.000,00, corrispondente, a detta della convenuta, all'ammontare ### - 4 - delle somme sottratte dalla lavoratrice.
Quanto alle differenze retributive, ha osservato non esservi contestazione tra le parti sulla loro spettanza alla dipendente, essendo state trattenute dal datore di lavoro a ristoro dell'asserito danno subito per la condotta di appropriazione di denaro della cassa del negozio, contestata alla ### la sentenza ha proposto appello, censurando il capo in materia di illegittimità del licenziamento e in materia di mancata compensazione del proprio credito con quello della dipendente.
Ha chiesto, pertanto, la riforma della sentenza impugnata, con accertamento della legittimità del licenziamento, con condanna della ricorrente alla restituzione di quanto indebitamente sottratto, o, in via subordinata, compensazione o riquantificazione di quanto dovuto alla dipendente tenendo conto delle somme dalla stessa indebitamente sottratte. si è costituita tempestivamente in giudizio ed ha resistito all'impugnazione, chiedendone il rigetto ed eccependo l'inammissibilità della domanda di condanna, trattandosi di domanda nuova, non spiegata in primo grado.
Sospesa cautelarmente la provvisoria esecutività della sentenza appellata, è stata svolta istruttoria con l'esame di quattro testimoni.
All'esito, l'udienza di discussione si è svolta mediante ### - 5 - scambio e deposito telematico di note scritte ai sensi dell'art.221, comma 4, del D.L. 34/2020, conv. in L.77/2020, e successive modifiche ed integrazioni, in materia di emergenza epidemiologica da ###19, e all'esito della camera di consiglio, la causa è stata decisa come da dispositivo comunicato alle parti. MOTIVI DELLA DECISIONE ### merita accoglimento nei termini che seguono (e unicamente con riferimento all'eccezione, avanzata in primo grado dalla di compensazione “impropria” del credito vantato dalla lavoratrice per l'illegittimità del licenziamento con il credito per risarcimento del danno da riconoscere alla datrice di lavoro).
In via preliminare, va senz'altro dichiarata l'inammissibilità della domanda spiegata dalla di condanna della lavoratrice al risarcimento dei danni derivanti dall'indebita appropriazione di somme della cassa del negozio cui ella era addetta, essendo stata avanzata per la prima volta soltanto in questo grado di giudizio e quindi, palesemente, oltre le preclusioni e decadenze di cui agli artt.414, 416 e 437 c.p.c..
Al riguardo va rilevato che in sede di costituzione nel giudizio di primo grado, la non aveva svolto alcuna domanda di condanna della lavoratrice al risarcimento dei suddetti danni, domanda che, tra l'altro, avrebbe dovuto essere formulata con la forma e nel rispetto dei tempi della domanda riconvenzionale (art.416 c.p.c.), ma si era limitata ad opporre il proprio credito da risarcimento del danno derivante dall'illecita condotta della dipendente di ### - 6 - appropriazione di denaro della ditta (danno da quantificarsi nell'importo di € 6.000,00, corrispondente all'ammontare delle somme sottratte), in compensazione con gli asseriti crediti della lavoratrice da licenziamento eventualmente illegittimo e da differenze retributive (si tratta di una compensazione impropria o atecnica, essendosi in presenza di reciproche obbligazioni derivanti da un unico rapporto giuridico ossia dal rapporto di lavoro).
E' noto - infatti - che "in caso di crediti originati da un unico rapporto, la cui identità non è esclusa dal fatto che uno di essi abbia natura risarcitoria, derivando da inadempimento, è configurabile la c.d. compensazione atecnica, nel qual caso la valutazione delle reciproche pretese comporta l'accertamento del dare e avere, senza necessità di apposita domanda riconvenzionale od eccezione di compensazione, che postulano, invece, l'autonomia dei rapporti ai quali i crediti si riferiscono" (cfr. tra le varie, Cass. n. 16800/2015, Cass. 14688/2012, Cass.n. 15796/2009 e Cass. n.23539/2011).
In sostanza, la si era limitata ad un'eccezione impeditiva delle pretese della ricorrente, ossia quella di compensazione impropria, e volta a paralizzare queste pretese, senza spiegare alcuna domanda di condanna della stessa (la compensazione è una modalità estintiva del debito e a maggior ragione lo è la compensazione impropria).
La domanda di condanna della lavoratrice appellata “al ristoro di quanto indebitamente sottratto, nonché a tutti i danni subiti, somme tutte, da liquidare anche in via equitativa” spiegata dalla ### - 7 - per la prim a vo lta in ques to grado di giudizio (cfr.pag.20 dell'appello), va dunque dichiarata inammissibile ai sensi dell'art.437 c.p.c., a prescindere dal fatto che la stessa si fondi su fatti che erano stati ritualmente dedotti in giudizio (essendo in pratica gli stessi fatti su cui è stato fondato il licenziamento della ricorrente, pure oggetto di giudizio, e anche oggetto dell'eccezione di compensazione impropria ritualmente spiegata nella memoria di costituzione in primo grado), essendo evidente che questi fatti, a seconda delle rivendicazioni giudiziali della parte e del contenuto delle relative difese, possono costituire sia il presupposto di mere eccezioni impeditive della pretesa attorea, come nella specie, sia il presupposto di una domanda da spiegare nei confronti della controparte, e la loro deduzione in giudizio non può certo rimettere in termini e legittimare la parte all'esercizio di un'azione che non ha tempestivamente spiegato entro le preclusioni di legge.
Sempre in via preliminare, va pure rilevato che la ha appellato unicamente il capo della sentenza in materia di licenziamento e il capo che ha escluso la compensazione impropria tempestivamente opposta nella memoria di costituzione di primo grado.
Non ha invece impugnato i due capi in materia di condanna al pagamento in favore della di differenze retributive per l'importo complessivo di € 4.162,70, oltre accessori di legge, con la conseguenza che questi capi devono ritenersi ormai definitivi e passati in giudicato (art.329 c.p.c.), senza alcuna possibilità di loro ### - 8 - modifica (nell'atto di appello non si fa il minimo cenno alle statuizioni della sentenza di primo grado in materia).
In particolare, la non ha impugnato la pronuncia di condanna al pagamento di dette somme e questo comporta che la stessa non può più essere modificata e paralizzata dall'eventuale accertamento di un controcredito della medesima da porre in compensazione impropria con i crediti cui si riferisce la pronuncia di condanna.
In altri termini, posto che l'eccezione di compensazione impropria ha quale scopo quello di paralizzare la condanna al pagamento del debito, appunto perché questo debito viene conguagliato con il controcredito del debitore e quindi attraverso questa modalità estinto in tutto o in parte, una volta passata in giudicato la pronuncia di condanna al pagamento del debito (che si vorrebbe estinguere attraverso la compensazione impropria con un proprio controcredito), quest'ultima compensazione impropria non può più operare (residuando al debitore condannato la facoltà di agire separatamente nei confronti del proprio creditore per far valere il credito opposto in compensazione impropria e non compensato).
Questo per chiarire che, come fondatamente dedotto dalla appellata, l'accertamento dell'eventuale controcredito della a titolo di risarcimento del danno derivato dalla condotta infedele della dipendente che si è appropriata di somme di denaro della prima, può giustificare la compensazione con i crediti della lavoratrice eventualmente accertati per quanto attiene al licenziamento, posto che ### - 9 - tutte le statuizioni in materia di licenziamento hanno formato oggetto di appello e sono pertanto suscettibili di modifica; non può invece giustificare la compensazione con i crediti retributivi della dipendente, perché con riferimento a questi ultimi, come detto, le statuizioni di condanna del giudice di primo grado sono ormai passate in giudizio, e quindi la condanna non è più suscettibile di modifica, sotto nessun profilo. :::::::::: Fatte queste premesse, non resta che passare all'esame del merito dell'appello.
Giova chiarire, sulla scorta di un primo quadro probatorio pacifico tra le parti, che la è stata assunta dalla in data 16 febbraio 2017, con contratto di lavoro a tempo indeterminato e, inizialmente, con orario di lavoro a tempo parziale per 10 ore settimanali, successivamente, dall'1 settembre 2017, con orario a tempo pieno, e dall'1 febbraio 2019, di nuovo con orario a tempo parziale per 20 ore settimanali.
E' stata inquadrata nel 2° livello del ### nel profilo professionale di sarta, ed è stata assegnata al negozio di sartoria gestito dalla s ito in ### .
Con lettera del 15 febbraio 2019, ricevuta dalla lavoratrice il 22 febbraio 2019, la società ha mosso alla dipendente una contestazione disciplinare, addebitandole di aver prelevato somme dalla cassa del negozio, per l'importo complessivo di € 6.000,00 (doc.1 fasc.1° grado . ### - 10 - La con scritto del 26 febbraio 2019, ricevuto dalla in data 4 marzo 2019, ha reso le proprie giustificazioni, negando gli addebiti (doc.8 fasc.1° grado lavoratrice).
La società, preso atto di queste giustificazioni, con lettera del 20 marzo 2019, spedita il successivo 21 marzo 2019 (e ricevuta dalla il 29 marzo 2019), ha comminato alla dipendente il licenziamento per giusta causa (doc.11 fasc.1° grado lavoratrice).
Il giudice di primo grado, come anticipato in premessa, ha ritenuto illegittimo il licenziamento per violazione del termine di cui allart.42 del ### di settore, essendo stato il licenziamento comminato oltre il termine ivi previsto di 12 giorni dalle giustificazioni rese dal lavoratore, e ha quindi ritenuto superfluo procedere con l'istruttoria per l'accertamento dei fatti addebitati alla lavoratrice, una volta dichiarata l'illegittimità dell'atto espulsivo sotto detto profilo (riguardante, peraltro, un vizio di sostanza e non di forma).
La co n il primo motivo di gravame, si duole di queste statuizioni e, anzitutto, lamenta che il giudice di primo grado non abbia adeguatamente valutato la condotta della lavoratrice (di appropriazione indebita di somme di denaro), certamente idonea ad integrare la giusta causa di licenziamento (essendo addirittura di rilevanza penale).
Si duole poi che il giudice non abbia proceduto ad accertare in concreto la sua ricorrenza, ammettendo le prove dedotte in punto.
Ed ancora, sotto diverso profilo, contesta l'applicabilità al ### - 11 - licenziamento disciplinare dell'art.42 del ### richiamato dal Tribunale, sostenendo che la norma contrattuale riguarderebbe le sanzioni disciplinari diverse dal licenziamento per giusta causa, e che la stessa (prevedendo che in mancanza di irrogazione della sanzione disciplinare entro il termine di 12 giorni dalle giustificazioni rese dal lavoratore, queste si ritengono accolte) introdurrebbe una presunzione superabile con la dimostrazione, a carico del datore di lavoro, che in realtà non vi sarebbe stata alcuna accettazione delle giustificazioni del dipendente.
Nel caso di specie, sussisterebbero elementi idonei a superare detta presunzione, posto che la con la con testazione disciplinare, era stata sospesa cautelarmente dalla prestazione lavorativa e non aveva più ripreso l'attività lavorativa sino al licenziamento, e, inoltre, aveva pure consegnato le chiavi del negozio ove lavorava, per cui ella non poteva certo fare affidamento su di un mutamento della volontà datoriale di risolvere il rapporto di lavoro, nei pochi giorni che si erano succeduti alla scadenza del termine del ### e fino all'irrogazione del licenziamento.
Il motivo non può essere condiviso. ###.42 del ### di settore nel regolare i “provvedimenti disciplinari” dispone, nella sua parte finale, che: “ai sensi dell'art. 7 della L. n. 300/1970, il datore di lavoro non potrà adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l'addebito e senza averlo sentito a sua difesa. ### - 12 - ### che per il richiamo verbale, la contestazione dovrà essere effettuata per iscritto ed i provvedimenti disciplinari non potranno essere comminati prima che siano trascorsi 5 giorni, nel corso dei quali il lavoratore potrà presentare le sue giustificazioni.
Se il provvedimento non verrà comminato entro i 12 giorni successivi a tali giustificazioni, queste si riterranno accolte”.
Lo stesso art.42, nella parte precedente, elenca invece i provvedimenti disciplinari adottabili dal datore di lavoro e tra questi include anche il licenziamento senza preavviso.
Tale essendo il contenuto dell'art.42, è indubbio che la previsione finale sopra riportata, sui tempi del procedimento disciplinare, riguarda, come espressamente statuito, tutti i provvedimenti disciplinari considerati dalla norma stessa, ivi compreso il licenziamento per giusta causa che è appunto ivi disciplinato (nel comma immediatamente precedente).
In sostanza, le disposizioni dell'art.42 del ### sulla procedura disciplinare ed i suoi tempi, sono disposizioni finali e di chiusura, che riguardano, come d'altro canto previsto imperativamente dall'art.7 stat.lav. richiamato, tutti i procedimenti disciplinari a carico del dipendente, sia che portino all'irrogazione di una sanzione conservativa, sia che portino all'irrogazione della massima sanzione espulsiva.
Non si vede dunque come possa sostenersi che la norma pattizia non trovi applicazione nel caso del licenziamento per giusta che altro non è se non una sanzione disciplinare (quella massima), per - 13 - la cui irrogazione va rispettato il suddetto procedimento e ciò per legge (cfr.art.7 stat.lav. con riferimento alle fasi della contestazione, delle giustificazioni e dell'irrogazione della sanzione), prima che per contrattazione collettiva, come avviene per tutte le sanzioni disciplinari, conservative o espulsive, a garanzia del diritto di difesa del lavoratore.
Per quanto attiene invece agli effetti derivanti dalla violazione della norma pattizia che agli ordinari termini di cui all'art.7 stat.lav., ne aggiunge uno ulteriore ossia il termine (di 12 giorni dalle giustificazioni rese dal lavoratore) entro cui la sanzione disciplinare deve essere adottata, stabilendo che diversamente le giustificazioni del lavoratore si riterranno accolte, la giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di occuparsi di clausole della contrattazione collettiva di identico contenuto, ed ha rilevato che il loro mancato rispetto comporta l'inefficacia della sanzione disciplinare comminata, senza possibilità di provare in concreto la sussistenza di elementi idonei a dimostrare il mancato accoglimento delle giustificazioni (in concreto), al di là della tardività dell'irrogazione della sanzione (cfr.da ultimo Cass.21569/2018).
In primo luogo, come rilevato dalla Suprema Corte, l'indicazione di un termine per il compimento di un'attività giuridicamente rilevante e la previsione di una determinata conseguenza per l'ipotesi di mancato compimento dell'attività entro tale termine, di certo non rientrano tra le cosiddette clausole di stile inserite dai contraenti del ### non per farvi derivare una precisa - 14 - volontà negoziale, ma in ossequio a una prassi meramente linguistica.
In secondo luogo, con riferimento alla previsione della contrattazione collettiva in esame (art.42 del ###, non appaiono prospettabili, né ipotizzabili, conseguenze diverse da quelle dell'obbligo di procedere all'indicata specifica attività (adozione del provvedimento disciplinare) entro il termine stabilito (si veda anche Cass.n.7295/2008) e della fictio dell'intervenuta accettazione delle giustificazioni nel caso di inottemperanza del suddetto obbligo.
E' ben possibile, infatti, che la disciplina collettiva arricchisca le garanzie di difesa dell'incolpato sia con la previsione di un termine finale, sia con l'attribuzione di un determinato significato al comportamento del datore di lavoro nei confronti del lavoratore avvalsosi della facoltà e dei mezzi di difesa apprestatigli dall'ordinamento (cfr. Cass. 21 marzo 1994 n. 2663/1994 Cass.n.8773/1992 e Cass.n.12116/1990).
La norma contrattuale, allora, nel momento in cui ricollega al ritardo la conseguenza dell'accettazione delle giustificazioni, ancorchè inserita in un contesto di norme procedurali, ha rango di norma sostanziale che regola il corretto esercizio del potere di recesso datoriale.
Ne deriva che a fronte della prefigurazione di un fatto come esistente (“le giustificazioni si riterranno accolte”), le conseguenze giuridiche non possono che essere quelle ricollegabili a quel fatto prefigurato come se fosse stato corrispondente alla realtà.
Ciascun contraente, infatti, è vincolato agli effetti del - 15 - significato socialmente attribuibile alle proprie dichiarazioni e ai propri comportamenti e così l'aver consapevolmente lasciato decorrere il termine per l'adozione del provvedimento disciplinare non può che essere significativo, sulla scorta della previsione contrattuale, oltre che dei principi di buona fede e correttezza che presidiano il rapporto di lavoro ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., della intervenuta accettazione da parte del datore di lavoro delle giustificazioni fornite dal lavoratore (si veda anche Cass. 6911/2009, che ha accertato la correttezza della pronunzia del giudice di merito in punto di decadenza del datore dal potere di recesso successivamente all'accettazione delle giustificazioni della controparte, per non essere stato il provvedimento sanzionatorio comminato entro il termine successivo a tali giustificazioni, essendo previsto anche dalla disposizione contrattale ivi applicata, che nel caso di mancata irrogazione della sanzione disciplinare entro detto termine, le giustificazioni si sarebbero ritenute accolte).
In tale situazione, peraltro, il datore di lavoro ha certo la possibilità di dimostrare l'eventuale impossibilità di rispettare il termine contrattualmente previsto, ma, al contrario, se il ritardo nell'irrogazione della sanzione non è determinato da impossibilità di provvedervi in tempo (impossibilità che, ovviamente, il datore di lavoro deve prima allegare e poi provare), il ritardo contravviene un silenzio che vale come accettazione delle difese del lavoratore e si risolve in un venire contra factum proprium, contrario alla clausola di buona fede che presidia il rapporto di lavoro - 16 - (cfr.Cass.cit.21569/2018).
In definitiva, concludendo in punto, una volta spirato il termine in questione, il datore di lavoro decade dall'esercizio del potere disciplinare e, per l'effetto, la sanzione irrogata tardivamente è inefficace o comunque illegittima.
In punto la sentenza di non merita censure, con la conseguenza che non essendovi contestazioni sulla tutela applicata dal Tribunale (e derivante dal combinato disposto degli artt.8 e 3, comma 1, del d.lgs.23/2015, avendo la una forza lavoro inferiore alle 15 unità), va confermata l'estinzione del rapporto di lavoro e il diritto della all'indennità risarcitoria liquidata nella sentenza di primo grado e pari a n.4 mensilità dell'ultima retribuzione utile per il ### quantificata in € 714,82, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla data del licenziamento al saldo. :::::::::: A questo punto, resta da affrontare l'eccezione di compensazione “impropria” con l'asserito controcredito che la sostiene di vantare nei confronti della lavoratrice (e pari ad € 6.000,00), eccezione che, come rilevato in premessa, quest'ultima aveva ritualmente avanzato in primo grado e che ha reiterato in questa sede (è evidente che se l'eccezione fosse fondata, il controcredito della estinguerebbe il credito della lavoratrice qui in esame e, come chiarito sopra, da circoscrivere unicamente al risarcimento del danno da licenziamento illegittimo).
Il Tribunale ha ritenuto di respingere l'eccezione, senza ### - 17 - procedere ad alcuna istruttoria, affermando, in sostanza, che l'accertamento dell'illegittimità del licenziamento (per la ragione di cui si è detto sopra) impediva l'accertamento del credito da opporre in compensazione, non essendo più rilevante indagare la sussistenza o meno della condotta di appropriazione indebita posta alla base dell'atto espulsivo.
Questa conclusione non può essere condivisa perché se è vero che l'illegittimità del licenziamento per il vizio di cui si è detto sopra, riguardante il procedimento disciplinare (da considerarsi non mero vizio di forma, bensì di sostanza), rende irrilevante l'accertamento della condotta di rilievo disciplinare contestata alla lavoratrice, sotto il profilo della legittimità o meno del licenziamento (atteso che se anche la giusta causa fosse sussistente, il licenziamento resterebbe comunque illegittimo); è altrettanto vero che non preclude l'accertamento della sussistenza di quest'ultima condotta sotto il profilo di un inadempimento da parte della lavoratrice delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro, con conseguente obbligo di risarcimento del danno in favore del datore di lavoro e relativo credito di quest'ultimo.
Nella specie, la aveva tempestivamente dedotto nel giudizio di 1° grado sia la condotta di appropriazione indebita posta in essere dalla dipendente, fonte del proprio credito risarcitorio, sia le prove dirette a dimostrarla.
Questa Corte territoriale pertanto, rivedendo in punto la decisione del giudice di primo grado, ha proceduto con l'istruttoria ### - 18 - orale, ritenendola ammissibile e necessaria per completare gli elementi indiziari ricavabili dalle prove documentali già in atti, prime tra tutte le videoriprese delle telecamere di sorveglianza installate dalla nel negozio cui era addetta la lavoratrice, proprio al fine di verificare condotte illecite dei dipendenti.
Venendo agli elementi di prova, ritiene il Collegio che nel loro complesso gli stessi offrano dati sufficienti a riscontrare la condotta illecita attribuita alla Per quanto attiene all'utilizzabilità dei video delle telecamere che, come detto, la ad un certo punto, ha installato nel negozio cui era addetta l'appellata, per riprendere la zona della cassa, è pacifico in causa che la loro installazione è avvenuta dopo che la ini ziò a sospettare della regolare tenuta della cassa da parte dei dipendenti (avendo il commercialista accertato un anomalo e inspiegabile calo degli incassi) e il loro utilizzo si è esaurito in pochi giorni (alla data dell'accesso dell, in data 28 marzo 2019, le telecamere non erano in funzione - cfr.4 fasc.1° grado -). ### e l'utilizzazione istruttoria dei filmati nel caso di specie è dunque consentita, anche in assenza dell'autorizzazione dell, posto che secondo la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass.Sez.L.n. 2722/2012, Cass.Sez.L. n.16622/2012, Cass.Sez.L,n. 4746/2002) le garanzie procedurali in tema di controllo del lavoratore, imposte dall'art.4, comma 2, stat.lav., espressamente richiamato dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 114, per l'installazione di ### - 19 - impianti e apparecchiature di controllo richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, dai quali derivi la possibilità di verifica a distanza dell'attività dei lavoratori, trovano applicazione anche nel caso di controlli c.d. difensivi, diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori, quando, però, tali comportamenti riguardino l'esatto adempimento della prestazione lavorativa, e non invece quando riguardino la tutela di beni estranei al rapporto stesso; ne consegue che esula dal campo di applicazione della norma il caso in cui il datore abbia posto in essere verifiche dirette ad accertare comportamenti del prestatore illeciti e lesivi del patrimonio e dell'immagine aziendale (Cass.n.3122/2015).
In particolare, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che in tema di controllo a distanza dei lavoratori, il divieto previsto dall'art. 4 dello statuto dei lavoratori di installazione di impianti audiovisivi od altre apparecchiature per il controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, non preclude al datore di lavoro, al fine di dimostrare l'illecito posto in essere da propri dipendenti, di utilizzare le risultanze di registrazioni video per esclusive finalità "difensive" del patrimonio aziendale, con la conseguenza che tali risultanze sono legittimamente utilizzabili nel processo dal datore di lavoro.
Tra l'altro, nel caso di specie, le telecamere sono state posizionate in modo da riprendere unicamente la zona della cassa del negozio e non anche l'area di lavoro della dipendente (che è situata nel retro del negozio), e ciò riscontra che lo scopo fosse mirato a controllare le operazioni di a difesa del patrimonio aziendale. ### - 20 - Fatto questo chiarimento e partendo proprio dai video prodotti dalla deve rilevarsi che il video allegato al doc.3 fasc.1° grado in effetti riprende la mentre asporta qualcosa dal cassetto della cassa del negozio e, allontanandosi dalla cassa, la ripone rapidamente nella tasca sinistra dell'abbigliamento indossato.
Precisamente il video ritrae la dietro il banco del negozio, intenta nelle operazioni di pagamento con una cliente: si vede la lavoratrice che apre un cassetto sotto il banco e consegna il resto in moneta ad una cliente; si vede poi la medesima lavoratrice che sistema nel medesimo cassetto la banconota o le banconote che la cliente ha lasciato sul banco, chiude il cassetto e compie l'azione per spostarsi dalla cassa; ci ripensa, torna indietro e immediatamente riapre il cassetto, armeggia all'interno del cassetto, dopodiché toglie dal cassetto qualcosa (evidentemente denaro) che ripone in tasca mentre si allontana dalla cassa, per recarsi nel retro del negozio.
Da queste riprese si ricava che la cassa era posizionata in un cassetto sotto il banco, visto che la dipendente apre quel cassetto per dare il resto alla cliente e ripone nello stesso cassetto le banconote o la banconota consegnata dalla cliente; si ricava altresì che la dipendente terminata l'operazione di incasso del prezzo dalla cliente e sistemato l'incasso, estrae dal medesimo cassetto qualcosa che ripone rapidamente in tasca.
Non è dato evincere se quanto estratto dal cassetto dalla dipendente sia del denaro, ma ricorrono elementi per ritenere che lo ### - 21 - fosse.
In primo luogo, non è emerso in giudizio che il cassetto contenesse beni diversi dal denaro, carte o altro, che la dipendente avesse necessità di prendere e tenere per sé, riponendoli nelle proprie tasche. ### dipendente escussa come testimone, ha raccontato che la lasciava nel cassetto in questione del denaro per dare il resto ai clienti l'indomani, ma non ha riferito che il cassetto contenesse anche qualcosa d'altro che loro dipendenti avevano necessità di prendere.
In secondo luogo, è risultato in giudizio che ad un certo punto, nell'estate 2018 (ossia all'epoca dei fatti per cui è causa), il negozio iniziò a registrare un calo di incassi, privo di spiegazioni.
Il teste , commercialista e consulente della sartoria, ha riferito di questo fatto nei termini che seguono: “… la sartoria aveva ed ha tutt'ora una contabilità semplificata: registrava gli incassi giornalieri. Ricordo che nell'estate del 2018 io mi sono reso conto, a seguito di un controllo ordinario, che la sartoria registrava un calo di incassi. Segnalai questa cosa alla sartoria.
Preciso che la sartoria ogni giorno annota sul registro degli incassi le somme incassate e a fine mese ci invia la registrazione. Se non ricordo male l'anno successivo la sartoria ha ripreso il suo trend degli incassi. Preciso che il calo era significativo pari in media a circa il 50% rispetto agli altri mesi. Devo dire che il calo era altalenante: in alcuni mesi era più del 50%, in altri mesi meno. Si ### - 22 - trattava di somme significative e non di centesimi. Potrebbe essere che per l'intero periodo il calo si sia aggirato attorno ad € 6.000,00 o anche di più. Cercai di indagare le ragioni del calo con la e non riuscimmo a capirle, perché non era accaduto nulla di importante. Chiesi se ci fosse un calo della clientela o la chiusura della strada, o il fatto che la fosse meno presente in negozio perché stava aprendo un altro punto vendita-laboratorio, e mi rispose negando queste cause, dicendo che non le risultava un calo di clienti, né che fosse meno presente in negozio. …”.
In terzo luogo, è pure risultato in giudizio che la era avvezza al gioco (abitudine questa che notoriamente richiede disponibilità immediata di denaro): la collega ha raccontato di aver visto la allontanarsi dal negozio per acquistare “gratta e vinci” e il teste , titolare della tabaccheria posta nelle vicinanze del negozio (a circa 10/20 metri), pur non sapendo riferire di chi si trattasse, ha ricordato che qualcuno del negozio si recava nella sua tabaccheria a comprare i “gratta e vinci”, e si trattava di una donna e sempre della stessa; il teste ha anche ricordato che ad un certo punto gli era stato chiesto dalla titolare del negozio di sartoria se detta donna andava spesso e il teste verosimilmente le aveva risposto di sì, pur non ricordando quest'ultimo fatto con precisione, visto il tempo trascorso.
In quarto luogo, è rimasta priva di riscontro probatorio la prassi prospettata dalla a giustificazione della propria condotta, secondo cui a volte le dipendenti utilizzavano denaro ### - 23 - proprio per dare il resto ai clienti e poi lo riprendevano dalla cassa quando era disponibile: l'unica teste che ha saputo riferire al riguardo è stata la altra dipendente, la quale ha negato una simile prassi, escludendo di aver mai visto la prendere denaro dal proprio portafoglio per dare il resto ai clienti.
Ed allora, valutando complessivamente tutti questi dati, non può che ritenersi accertato, da un lato, che ciò che la nelle riprese delle telecamere estrae dal cassetto della cassa e ripone nella sua tasca, è denaro; dall'altro lato, che la dipendente ha tenuto più volte questa condotta, avendo il negozio della all'epoca dei fatti e precisamente nella seconda parte dell'anno 2018, registrato un improvviso calo di incassi di ben € 6.000,00, del tutto privo di giustificazioni, non potendo lo stesso attribuirsi ad alcun calo di clientela, non avvenuto, o ad altre ragioni, e avendo il negozio ripreso il trend ordinario degli incassi, una volta interrottosi il rapporto di lavoro della appellata (nel febbraio 2019).
Stando così le cose, può dirsi raggiunta la prova delle condotte di appropriazione indebita contestate alla con conseguente inadempimento di quest'ultima degli obblighi di correttezza e fedeltà alla base del rapporto di lavoro e con conseguente obbligo della lavoratrice di restituzione a titolo di risarcimento del danno subito dalla datrice di lavoro per effetto del suo inadempimento, delle somme indebitamente sottratte dalla cassa (non essendovi peraltro dubbio che la sottrazione degli incassi dalla cassa sia stata opera della e non di altri - e in particolare ### - 24 - dell'altra dipendente -, sia perché le riprese video ritraggono la e non altri, mentre estrae denaro dal cassetto della cassa del negozio e lo ripone in tasca, sia perché l'andamento degli incassi, come riferito dal commercialista, è ritornato nella norma dopo la cessazione del rapporto di lavoro della avvenuta nel febbraio del 2019, quando l'unica altra collega di quest'ultima era ancora in forza).
Per quanto attiene alla quantificazione degli ammanchi non vi è ragione per ritenere inattendibile il commercialista dalla quando riferisce che per l'intero periodo in cui si registrò il calo di incassi, questo ammontò a circa € 6.000,00 “o anche di più” (peraltro è evidente che per essere segnalato dal commercialista come preoccupante, il calo non poteva che essere significativo e non di poche centinaia di euro).
Va quindi accertato un credito della nei confronti della di detto im porto, con la conseguenza che conguagliando lo stesso con il credito della lavoratrice derivante dall'accertata illegittimità del licenziamento, il saldo a favore della lavoratrice risulta negativo (€ 6.000,00 contro € 714,82 x 4, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria).
Ne deriva che la sentenza di primo grado va riformata laddove condanna la al pagamento in favore della di un importo pari a n.4 mensilità dell'ultima retribuzione utile per il TFR (quantificata in € 714,82), essendosi il credito della lavoratrice estinto per compensazione impropria con il maggior controcredito ### - 25 - della per come accertato in giudizio, con la conseguenza che quest'ultima nulla deve alla appellata per effetto dell'accertata illegittimità del licenziamento. :::::::::: Circa le spese di lite, la parziale riforma della sentenza di primo grado travolge anche la statuizione in punto, posto che la liquidazione delle spese processuali (del primo e del secondo grado) deve effettuarsi sulla base dell'esito finale della controversia, in sede di decisione di secondo grado.
E' noto il principio, costantemente affermato dalla Suprema Corte, secondo cui il giudice di appello, allorché riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, deve procedere d'ufficio, quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, ad un nuovo regolamento delle spese processuali, il cui onere va attribuito e ripartito tenendo presente l'esito complessivo della lite, poiché la valutazione della soccombenza opera, ai fini della liquidazione delle spese, in base ad un criterio unitario e globale, con la conseguenza che si ha violazione del principio di cui all'art. 91 c.p.c., quando la parte soccombente venga ritenuta soccombente in un grado di giudizio e, invece, vincitrice in un altro grado.
Nella specie, alla luce dell'esito finale del presente giudizio, le parti sono risultate parzialmente e reciprocamente soccombenti, ma la soccombenza della è stata prevalente, per cui si ritiene congruo condannare quest'ultima al pagamento di 1/3 delle spese di entrambi i gradi di giudizio, compensando tra le parti i residui 2/3. ### - 26 - Per la loro liquidazione, per l'intero e per ogni grado di giudizio, si rinvia al dispositivo. p.q.m. In parziale riforma della sentenza n.201/2020 del Tribunale di ### dichiara interamente compensate le somme dovute a a titolo di risarcimento del danno da licenziamento illegittimo, con il maggior credito di € 6.000,00 vantato da respinge per il resto l'appello; condanna l'appellante al pagamento delle spese di entrambi i gradi di giudizio nella misura di 1/3, liquidandole, per l'intero e per il primo grado, in complessivi € 2.500,00, e, sempre per l'intero e per il presente grado, in complessivi € 3.000,00, oltre accessori di legge; dichiara compensati tra le parti i residui 2/3; distrae le spese in favore dei procuratori dell'appellata che si sono dichiarati antistatari. ### 19 maggio 2022 ### (dott.ssa #### (dott.####
causa n. 185/2020 R.G. - Giudice/firmatari: N.D.