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TRIBUNALE DI NAPOLI ### REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale di Napoli, ### e ### in funzione del giudice monocratico dr.ssa ### ha pronunciato, in data ###, la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. 11745/2023 del R.G.A.C. Sez. ### e #### elettivamente domiciliata in Napoli alla via dei ### 21 presso lo studio dell' avv. ### che la rappresenta e difende in virtù di procura in atti RICORRENTE E ### s.r.l., in persona del legale rapp.te p.t., rappresentata e difesa, come in atti, dell'avv. ### con studio in ####, ### 59, giusta procura in atti RESISTENTE OGGETTO: accertamento rapporto, spettanze, impugnativa di licenziamento disciplinare ### come in atti RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE Con ricorso depositato in data ### parte ricorrente in epigrafe indicata esponeva di essere stata assunta alle dipendenze della ### srl con contratto a tempo determinato fino al 31.07.2022, successivamente prorogato due volte, rispettivamente in data ### sino al 31/10/2022 ed in data ### sino al 30/04/2023, con le mansioni di impiegata amministrativa ed inquadrata al livello ### del ### di avere lavorato alle dipendenze della detta società fino al 13-12-2022 data in cui il rapporto era cessato per effetto di un licenziamento disciplinare; di avere lavorato dalle ore 8.00 alle ore 13.00 e dalle 14.00 alle 17.36, dal lunedì al venerdì, in luogo delle n° 38 ore settimanali e che l'orario di lavoro si era protratto spesso sino alle ore 19.00 ovvero per oltre 1 ora al giorno in più per 5 giorni a settimana; di avere svolto le mansioni di addetta alla gestione dell'archivio cartaceo e digitale aziendale, intrattenendo rapporti con la sede centrale di ### e provvedendo a curare la corrispondenza e tutte le richieste amministrative anche da parte di enti ed istituti bancari per la corretta gestione delle commesse intrattenute dalla convenuta; di aver maturato differenze retributive in virtù dell'applicazione dell'effettivo livello stipendiale dovuto che risultava essere corrispondente al livello ### del medesimo ### di categoria applicato (e non al livello ###); di essere stata vittima di un licenziamento disciplinare illegittimo per insussistenza del fatto contestato, violazione del procedimento disciplinare e del principio di proporzionalità e di aver percepito una retribuzione non proporzionata alla qualità e quantità della prestazione resa.
Tanto premesso conveniva la società resistente dinanzi all'adito Tribunale al fine di ottenere l'adozione dei seguenti provvedimenti di giustizia: “ 1) accertare e dichiarare che tra la ricorrente ###ra ### e la ### è intercorso sin dal principio un rapporto lavorativo di natura subordinata a tempo indeterminato; 2) accertata e dichiarata la nullità, l'annullabilità e in ogni caso l' illegittimità del licenziamento intimato alla ricorrente per i motivi di cui in narrativa, e, conseguentemente, condannare la resistente al pagamento del danno ex art. 8 L. 604/66 da quantificarsi nella misura massima indicata da tale norma, con interessi e rivalutazione al soddisfo; 3) accertare e condannare la ### in persona del legale rapp.te p.t., al pagamento della somma di € 11765,36, a titolo di differenze retributive, TFR ed indennità mancato preavviso come meglio determinata in narrativa, oltre interessi e rivalutazione al soddisfo; 4) condannare, la resistente al pagamento delle spese e competenze di giudizio da liquidarsi al deducente procuratore”.
La società resistente, regolarmente citata, si costituiva in giudizio eccependo, in via preliminare, l'inammissibilità della domanda giudiziale per violazione del disposto di cui all'art. 414 c.p.c. in relazione alla richiesta di riconoscimento di differenze retributive per mansioni superiori e chiedendo, nel merito, il rigetto della stessa per la restante parte perché infondata in fatto ed in diritto con vittoria di spese di lite.
In corso di causa era ammessa ed espletata la prova testimoniale.
All'odierna udienza, all'esito del deposito di note conclusionali e della riformulazione dei conteggi da parte del procuratore della ricorrente, il Tribunale osserva che: E', in via preliminare, demandato al ### l'esame del vizio di inammissibilità della domanda giudiziale inerente le differenze retributive maturate in virtù dell'applicazione dell'effettivo livello stipendiale dovuto che risulterebbe in tesi essere corrispondente al livello ### del medesimo ### di categoria applicato (e non al livello ###) per violazione dell'art.414 c.p.c., eccepito dalla società resistente ed, in ogni caso, rilevabile anche d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio.
Esso può trovare accoglimento sulla base delle considerazioni che seguono.
Va, al riguardo, operata un'importante distinzione tra le allegazioni funzionali all'identificazione della pretesa vantata dall'attore, la cui mancanza, risolvendosi in un vizio della edictio actionis, sfocia nella nullità dell'atto introduttivo del giudizio e quelle, di diversa portata, la cui lacuna comporta, al contrario, la decadenza dal potere di allegare tali fatti nell'ulteriore corso del processo, salvo che si verifichino le condizioni in presenza delle quali vengono meno le preclusioni ricollegate al deposito del ricorso introduttivo.
In definitiva, è solo in relazione alle prime che si potrà parlare di nullità del ricorso stesso, rilevabile dal convenuto nel termine di decadenza di cui all'art 416 c.p.c. e dal giudice, d'ufficio, in ogni stato e grado del giudizio.
Le carenze nell'indicazione della causa poetendi, infatti, impediscono la corretta instaurazione del contraddittorio vietando, da una parte, al convenuto di attenersi a quanto sancito al riguardo dall'art 416 III comma c.p.c., in base al quale costui dovrebbe prendere posizione sui fatti affermati dall'attore “in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione” e, dall'altra, al giudice di esercitare con piena consapevolezza, non avendo un'esatta cognizione dei fatti di cui è causa, i poteri istruttori di ufficio di cui egli dispone.
La mancata specificazione, nel ricorso introduttivo, degli elementi di fatto e di diritto posti a base della domanda, qualora non siano individuabili neppure alla stregua di un esame complessivo dell'atto introduttivo, comporta la nullità dello stesso anche alla luce della disposizione di cui all'art. 420 I comma c.p.c., in base alla quale le parti potranno modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate solo qualora ricorrano gravi motivi ed in presenza di un'apposita autorizzazione giudiziale, la quale, a sua volta, potrà essere concessa solo laddove il giudice accerti che la novità che si vuole introdurre in giudizio discenda, effettivamente, dall'andamento dialettico del processo e dall'attuazione del principio del contraddittorio e non si risolva, pertanto, in un semplice ripensamento, espressione di uno ius poenitendi che nel rito del lavoro non trova alcun margine di applicazione.
La suddetta disciplina è ispirata ai caratteri di concentrazione, immediatezza ed oralità del processo del lavoro che, almeno in base alle intenzioni originarie del legislatore del 1973, attraverso la previsione dell'onere, in capo a ciascuna parte, di specificare, fin dall'inizio, già nei rispettivi atti introduttivi, le proprie richieste, avrebbe dovuto risolversi ed esaurirsi integralmente nell'ambito di una sola udienza, quella di cui all'art 420 c.p.c.
Ritiene questo ### che non sia estensibile analogicamente al rito del lavoro il meccanismo di sanatoria descritto dall'art 164 V comma c.p.c. relativo ai vizi della citazione inerenti l'edictio actionis, diversamente da quanto sancito, al riguardo, da una recente pronuncia della Cass. a sez unite (sent. n. 11353/2004) sulla base delle riforme che, negli ultimi anni, hanno interessato il rito ordinario rendendolo sempre più affine, quanto ai suoi meccanismi di funzionamento, a quello del lavoro.
Questo profilo, unitamente all'inquadrabilità del processo del lavoro, pur nella sua autonomia, nell'ambito del generale sistema del c.p.c. inerente il giudizio a cognizione ordinaria, secondo la Suprema Corte dovrebbe indurre l'interprete, in assenza di una specifica disposizione derogatoria alla disciplina ordinaria, a colmare ogni eventuale carenza nella regolamentazione del rito del lavoro attraverso l'applicazione tanto delle norme generali del I libro c.p.c., quanto di quelle del processo di cognizione del II libro del c.p.c., quest'ultime nei limiti della loro compatibilità con le peculiarità del rito stesso.
E' in relazione a tale ultimo profilo che questo ### ritiene di doversi dissociare da quanto sancito dalla Suprema Corteproprio alla luce delle summenzionate esigenze di concentrazione e speditezza che, almeno nell'originario disegno normativo, avrebbero dovuto permeare il processo del lavoroe, quindi, ritenere il meccanismo di sanatoria di cui all'art 164 V comma c.p.c. incompatibile con l'immediata definizione del thema decidendi.
Ragionando diversamente si finisce, infatti, per invertire i termini della questione dal momento che l'avvicinamento, effettuato nel corso degli anni, del processo ordinario a quello del lavoro, con le riforme del 1942 e del 1990, ha trovato la sua ratio nelle esigenze di speditezza ed economia processuale comuni ad entrambi, per cui sarebbe indubbiamente contraddittorio operare in senso inverso, estendendo la disciplina ordinaria al rito del lavoro, anche laddove tale operazione ermeneutica si risolvesse in una frustrazione delle suddette esigenze.
E, infatti , indubbio come il meccanismo di rinnovazione dell'atto introduttivo sancito dall'art 164 V comma c.p.c, se esteso al rito del lavoro, finirebbe, inevitabilmente, per dilatare i tempi del processo, impedendo l'integrale trattazione dello stesso nell'ambito dell'udienza ex art 420 c.p.c. ed a nulla potendo valere, in senso contrario, il fatto che l'intenzione del legislatore di arrivare alla pronuncia del dispositivo all'esito della stessa sia stata nei fatti disattesa per effetto dell'incremento, in tale ambito, del contenzioso giudiziario.
Per effetto della parità delle armi tra attore e convenuto, infatti, il trattamento processuale dell'atto introduttivo non potrebbe essere diverso da quello della memoria difensiva, per cui, una volta consentito al ricorrente di integrare il proprio ricorso con le allegazioni di ulteriori fatti idonei ad identificare correttamente la pretesa azionata in giudizio, dovrebbe essere permesso anche al convenuto, mediante un differimento dei termini per la costituzione in giudizio ex art 416 c.p.c, di poter effettuare, questa volta correttamente per effetto dell'avvenuta specificazione dei fatti costitutivi della pretesa attorea, quanto sancito a suo carico dall'art 416 III comma c.p.c, differendo nel tempo sia l'assunzione delle rispettive posizioni processuali, sia la trattazione dell'udienza di discussione prevista dall'art 420 c.p.c.
La soluzione prospettata dalla Suprema Corte presenta, inoltre, un ulteriore elemento di criticità dal momento cheanche a voler interpretare la pronuncia di cui sopra nel senso che le decadenze maturate ed i diritti quesiti, che restano “ fermi” e “ salvi” ex art 164 V comma c.p.c., siano solo di natura sostanziale, mentre l'esercizio del potere officioso comporti in ogni caso la sanatoria ex tunc delle decadenze processuali (e, pertanto, anche di carattere istruttorio)- tale opzione interpretativa contrasterebbe, comunque, con il meccanismo, riferito dalla Corte, di “circolarità del processo del lavoro” sotto il profilo dell'onere di allegazione, onere di contestazione ed oneri probatori, dal momento che questi ultimi dovrebbero essere soddisfatti fin dall'inizio senza poter essere integrati successivamente.
Difatti, una prova testimoniale articolata su un capo della domanda, attraverso l'integrazione dei fatti allegati, finirebbe con il tradursi in una prova su circostanze diverse da quelle capitolate nel ricorso e quindi in definitiva sarebbe una prova nuova, in violazione del principio, enunciato dalla stessa Corte, della preclusione dei mezzi istruttori maturata con il deposito del ricorso.
Né a conclusioni migliori si perverrebbe aderendo alla diversa opzione interpretativa in base alla quale, una volta rinnovato l'atto ad opera del ricorrente, resterebbero comunque ferme le preclusioni maturate sotto il profilo istruttorio, in quanto il convenuto potrebbe in ogni momento dedurre la mancanza di prova in ordine a tutte quelle allegazioni, individualizzanti il diritto dedotto in giudizio, oggetto dell'atto rinnovato, con la conseguenza che il ricorrente vedrebbe rigettato nel merito il proprio ricorso con un conseguente snaturamento dell'istituto della sanatoria. ### profilo della pronuncia della Suprema Corte che, a parere di questo ### risulta essere alquanto discutibile è, poi, quello relativo all'eventuale sanatoria del vizio del ricorso, attinente all'edictio actionis, per effetto del raggiungimento del suo scopo, in caso di mancata fissazione, da parte del giudice, di un termine perentorio per la rinnovazione dello stesso o per l'integrazione della domanda e nel caso di mancata tempestiva proposizione, da parte del convenuto, ai sensi dell'art 157 c.p.c., della relativa eccezione.
La suddetta sanatoria della nullità di cui è causa risulta, infatti, essere totalmente incompatibile con la natura del vizio di cui si discute: trattandosi, infatti, di una non precisa definizione della pretesa azionata in giudizio, il cosiddetto raggiungimento dello scopo potrebbe operare solo qualora si fosse provveduto, in altro modo, all'identificazione della stessa.
E', quindi, evidente che, in questa direzione possa operare solo il titolare della medesima e cioè l'attore, l'unico, infatti, in grado di far acquisire al processo l'elemento carente, integrando la propria domanda in modo da individuare la situazione soggettiva controversa.
A conferma di ciò basti riflettere sul fatto che, nel processo di cognizione ordinario, a differenza di quanto avviene per i vizi inerenti alla “vocatio in ius”, per quello che attiene alla “edictio actionis”, eventuali lacune esistenti al riguardo non possano mai essere colmate, per le ragioni anzidette, dall'avvenuta costituzione del convenuto; di conseguenza, non si vede come possano operare in tal senso il mancato rilievo di un vizio di tal fatta ad opera della controparte o del giudice.
In definitiva delle due l'una: o lo si considera insanabile, come finora affermato dalla giurisprudenza unanime prima della presa di posizione in senso inverso da parte della Cass a sez unite o lo si considera sanabile, ma esclusivamente, per la sua intrinseca natura, in seguito ad una attività integrativa da parte del solo ricorrente.
Seppure, infine, il meccanismo di sanatoria di cui si discute abbia l'indubbio vantaggio di imporre, tanto al giudice quanto alla controparte, di valutare immediatamente la conformità del ricorso al modello legale, precludendo, pertanto, censure di nullità sollevate per la prima volta in sede di gravame, esso renderebbe, comunque, impossibile e/o difficoltoso l'accertamento dei fatti allegati, dal momento che le attività istruttorie esperibili nel corso del processo finirebbero per riguardare circostanze prive di specificità e compiutezza, con la conseguenza di addivenire ad una verità processuale anch'essa carente e perciò censurabile.
Alla luce dei numerosi profili critici in questa sede esaminati, va, pertanto, ribadito il precedente orientamento dei giudici di legittimità, in base al quale i vizi di nullità del ricorso per insufficienza nell'indicazione degli elementi di cui all'art 414 n.4 c.p.c. siano insuscettibili di integrazione attraverso il meccanismo di cui all'art 164 V, comma c.p.c.
Ciò premesso in linea generale, con riferimento alla fattispecie concreta, giova evidenziare che la ricorrente, premesso di essere stata dipendente della società resistente, espone di aver espletato, pei i periodi indicati nel corpo del ricorso introduttivo, mansioni superiori di gestione dell'archivio cartaceo e digitale aziendale, intrattenendo rapporti con la sede centrale di ### dove risultava allocato lo stabilimento dedito all'attività principale e provvedendo a curare la corrispondenza e tutte le richieste amministrative anche da parte di enti ed istituti bancari per la corretta gestione delle commesse intrattenute dalla convenuta che svolgeva attività di gestione e smaltimento dei rifiuti.
Tanto premesso, invocata l'applicazione dell'art 2103 c.c., deduce di aver maturato differenze retributive in virtù dell'applicazione dell'effettivo livello stipendiale dovuto che risultava essere corrispondente al livello ### del medesimo ### di categoria applicato (e non al livello ###).
Pur tuttavia la ricorrente è incorsa in un insanabile vizio della domanda proposta in quanto l'analisi dell'atto introduttivo conduce, necessariamente, all'impossibilità di individuare con certezza gli elementi, giuridici e di fatto, addotti a fondamento della pretesa attorea.
Parte ricorrente, infatti, deduce di avere espletato mansioni rapportabili ad un superiore inquadramento contrattuale, omettendo, tuttavia, di allegare quali siano stati, in concreto, i compiti affidatile limitandosi ad una sintetica esposizione nella quale prevalgono le qualificazioni tecnico giuridiche più che le modalità di espletamento della prestazione.
Orbene la omissione di detti elementi preclude alla controparte di spiegare analitiche difese sui fatti dedotti ed al giudicante di procedere all'accertamento del contenuto della prestazione che costituisce il preliminare passaggio logico per potere valutare la correttezza dell'inquadramento contrattuale attribuito.
In altri termini, sarebbe occorsa, sulla base di una puntuale ed analitica descrizione in fatto delle singole attività effettivamente espletate, la prospettazione e l'allegazione delle caratteristiche delle mansioni rivendicate alla luce delle nuove categorie contrattuali onde consentire al giudicante di verificare il rapporto tra le mansioni espletate e quelle rivendicate e di effettuare il giudizio di comparazione tra le stesse, nonché l'allegazione e la prospettazione della ricorrenza delle condizioni richieste per il riconoscimento del diritto alle differenze di trattamento economico.
Dunque il giudicante non è stato posto nella condizione di potere operare la comparazione tra la qualifica attribuita e quella rivendicata.
E' appena il caso di sottolineare come, ai fini prima indicati, non possa in alcun modo farsi riferimento alla documentazione versata in atti al deposito del ricorso, per l'evidente ragione che uno è il piano delle allegazioni - in relazione al quale, solo, va valutata la “completezza” del ricorso - altro è il piano delle produzioni documentali, destinato a venire in rilievo in una fase processuale logicamente e cronologicamente distinta ed in funzione esclusivamente probatoria di quanto già oggetto di precedente allegazione.
Tanto premesso, di fronte all'evidente laconicità del ricorso, non sanabile, come innanzi chiarito, dall'integrazione delle circostanze fattuali poste a fondamento della pretesa azionata in giudizio, non solo si pregiudica il diritto di difesa del convenuto, ma si pone il giudicante nell'impossibilità di decifrare linearmente l'oggetto del contendere e di esercitare correttamente i suoi poteri istruttori.
Alla stregua delle suesposte considerazioni, superflua ogni altra valutazione, la domanda giudiziale va, in parte qua, dichiarata inammissibile.
Parte ricorrente rivendica, altresì, differenze retributive a titolo di lavoro straordinario deducendo di avere lavorato dalle ore 8.00 alle ore 13.00 e dalle 14.00 alle 17.36, dal lunedì al venerdì, in luogo delle n° 38 ore settimanali e precisando che l'orario di lavoro si sarebbe protratto spesso sino alle ore 19.00 ovvero per oltre 1 ora al giorno in più per 5 giorni a settimana.
Ciò posto, con specifico riferimento al maggiore orario lavorativo che parte ricorrente assume di aver prestato rispetto a quello risultante dalle buste paga in atti, come già innanzi evidenziato, il lavoratore che agisce per ottenere il compenso per il lavoro svolto in eccedenza, rispetto all'orario originariamente pattuito a seguito di richiesta formulata dal datore nell'esercizio del potere direttivo e organizzativo in capo a quest'ultimo, ha, innanzitutto, l'onere di dimostrare di aver lavorato oltre l'orario normale di lavoro e, ove egli riconosca di aver ricevuto una retribuzione ma ne deduca l'insufficienza, come nel caso di specie, è altresì tenuto a provare il numero di ore effettivamente svolte, con specifico riferimento alla collocazione cronologica delle prestazioni lavorative eccedenti il normale orario di lavoro.
Consolidate e condivisa giurisprudenza di legittimità ha sostenuto che la prova può essere fornita dal lavoratore con qualunque mezzo, ma non si può sostituire alla stessa il giudizio equitativo del giudice che potrà intervenire esclusivamente dinnanzi ad un diritto del lavoratore provato e, quindi, certo (cfr. Cass. n. 9906/2015; n. 19299/2014; 1389/2013). Ebbene, il rigore della prova esige il preliminare adempimento dell'onere di una specifica allegazione, dalla parte che ad essa sia tenuta, del fatto costitutivo (nel caso di specie: diritto al compenso per lavoro straordinario): secondo la circolarità, propria del processo del lavoro, tra oneri di allegazione, di contestazione e di prova (Cass. s.u. 17 giugno 2004, n. 11353; Cass. 9 febbraio 2012, n. 1878; Cass. 4 ottobre 2013, n. 22738)" (Cass. n. 16150/2018).
Ed ancora: "il lavoratore che chieda in via giudiziale il compenso per il lavoro straordinario ha l'onere di dimostrare di aver lavorato oltre l'orario normale di lavoro, senza che possa farsi ricorso, nel relativo accertamento, al criterio equitativo di cui all'art. 432 c.p.c., atteso che tale norma riguarda la valutazione del valore economico della prestazione lavorativa e non già la sua esistenza (cfr. Cass. n. 4668 del 1993; Cass. n. 14466 del 1999; Cass. n. 1389 del 2003) (...) la valutazione sull'assolvimento dell'onere probatorio in ordine al lavoro straordinario prestato costituisce accertamento di fatto (Cass. n. 12434 del 2006; Cass. n. 3714 del 2009), così come quello in ordine alla mancata fruizione di permessi e ferie" (Cass. n. 16951/2018). ###, inoltre, ha avuto modo di chiarire che, spettando al lavoratore dare la prova dell'effettiva prestazione del lavoro straordinario e/o feriale, non può ritenersi come dato acquisito al processo l'avvenuta prestazione di attività lavorativa oltre il normale orario ovvero nel periodo coincidente con quello feriale per il solo fatto che manchino contestazioni sul punto da parte del datore di lavoro: la controparte, infatti, non ha l'onere di fornire alcuna prova contraria se l'attore viene meno al suo onere probatorio (cfr., al riguardo, la sent. n. 3714/2009 cit., che ha precisato che neppure eventuali - ma non decisive - ammissioni del datore di lavoro sono idonee a determinare una inversione dell'onere della prova).
Ciò posto, nella vicenda de qua, passando all'esame delle deposizioni testimoniali assunte in corso di causa, il teste ### ha dichiarato: “Indifferente.
Conosco la ricorrente in quanto sono stata anche io dipendente della società resistente dal 7/3/2022 alla fine di ottobre 2022. Il rapporto di lavoro si è concluso di comune accordo, non ho giudizi in corso. Io ero impiegata in amministrazione ed ho osservato un orario lavorativo articolato, dal lunedì al venerdì, dalle 10:00 alle 16:00 con mezz'ora di spacco per il pranzo. Quando io arrivavo a lavoro alle 10:00 la ricorrente era già in servizio ed andava via alle 13:00 per rientrare o alle ore 14:00 o alle 15:00, non posso essere più precisa al riguardo. Era, in ogni caso, ancora in servizio quando io andavo via alle 16:00. Non mi risulta che vi fosse un dispositivo marcatempo. Era il sig. ### a raccogliere le presenze di tutti i dipendenti per fornirle al consulente del lavoro, per la redazione delle buste paga. Preciso che sia all'entrata che all'uscita dal lavoro ero tenuta a firmare un foglio relativo alla mia specifica posizione redatto per ciascuna mensilità in cui annotavo sia l'orario di entrata che di uscita, che riponevo, alla fine della mia giornata lavorativa, nel cassetto della mia scrivania ed, a fine mese, consegnavo al sig ### Questa stessa prassi riguardava tutti noi dipendenti e, quindi, anche la ricorrente. Non conosco gli orari di apertura e chiusura dell'ufficio”.
A sua volta il teste ### ha dichiarato :” Indifferente. Sono dipendente della società convenuta dal febbraio 2022 anche se vi ho lavorato fin dal 2016 per effetto di un provvedimento di distacco della società ### srl. Il mio orario di lavoro è articolato dal lunedì al venerdì, dalle 9.00 alle 13:00 e dalle 14:00 alle 17:36 e l'orario lavorativo della ricorrente era il medesimo con l'unica precisazione che rientrava alle 15:00 ed usciva alle ore 18:36. ### di lavoro dei dipendenti è affisso in bacheca e sottoscritto dai dipendenti medesimi. ### un foglio presenze mensile per ogni dipendente nel quale erano annotati gli orari di entrata e di uscita di ciascuno di essi. ### dispone di un dispositivo marcatempo ma è stato istallato pochi giorni prima dei fatti di causa. Non mi risulta che la ricorrente sia mai rimasta in servizio oltre le 18:36 in quanto, in quel caso, avrei dovuto autorizzarlo io e non ho mai provveduto a farlo. Al massimo poteva accadere che se un dipendente arrivava in servizio con dieci minuti di ritardo usciva dal lavoro dieci minuti dopo. Poteva, inoltre, capitare che la ricorrente mi chiedere di rientrare alle 14:00 per uscire alle 17:36, per sue esigenze personali”.
Infine, il teste ### ha dichiarato:” ### il cognato del sig. ### che è responsabile amministrativo della resistente. Conosco la ricorrente in quando anche io lavoro alle dipendenze della resistente dal 14/11/2022 e sono attualmente in servizio …. Il mio orario lavorativo era articolato dal lunedì al venerdì dalle ore 9:00 alle 13:00 e dalle 14: alle 17:36 mentre la ricorrente rientrava alle 15:00 per andare via alle 18:36. ### restava aperto dalle 9:00 alle 18:36. In genere ero io il primo ad arrivare e ad aprire l'ufficio mentre la ### arrivava qualche minuto dopo. Sia io che la ricorrente avevamo le chiavi dell'ufficio. Da quando ho cominciato a lavorare (14/11/2022) il dispositivo marcatempo era già presente nei locali aziendali ma non ne era stata ancora completata l'istallazione, che è avvenuta circa una settimana dopo. In quel frangente, nel corso della settimana precedente, sia io che la ricorrente usavamo sottoscrivere il foglio presenze sia all'entrata che all'uscita”.
Dalla complessiva lettura delle deposizioni testimoniali assunte in corso di causa da ritenersi particolarmente attendibili in quanto rese da persone a diretta conoscenza dei fatti di causa, non può, pertanto, ritenersi sufficientemente provato che la ricorrente abbia osservato l'orario lavorativo così come dedotto nel corpo del ricorso introduttivo così che nulla possa esserle riconosciuto a titolo di lavoro straordinario.
Parte ricorrente lamenta, altresì, la mancata corresponsione della retribuzione dovutale per le mensilità di novembre 2022, dicembre 2022, 13° mensilità e TFR mentre parte resistente eccepisce l'avvenuto pagamento di tutto quanto a lei spettante come da documentazione contabile allegata al n. 9 del proprio atto introduttivo costituita da copie di bonifici bancari riportanti una data successiva alla risoluzione del rapporto di lavoro.
Ciò posto, considerando le causali specificamente indicate nelle singole copie dei bonifici bancari allegati agli atti, possono in questa sede rilevare a fini probatori solo quelli del 09.01.2023 e del 22.12.2022 - entrambi recanti la causale “acconto stipendio 2022” - per un importo, rispettivamente, di € 200,00 e di € 350,00.
Ne consegue che, in mancanza di qualunque altra prova al riguardo in merito all'effettivo pagamento del dovuto ed in considerazione del calcolo così come effettuato dal procuratore di parte ricorrente in ossequio all'ordinanza resa in data 20 05.2025 in quanto correttamente effettuato e scevro da vizi di qualsivoglia genere, la società resistente va condannata al pagamento, in favore di parte ricorrente, di € 5.382,50 a titolo di differenze retributive ed € 1.302,94 a titolo di ### per un totale di € 6.685,43, oltre accessori di legge.
In proposito non si ritiene di condividere la contestazione mossa dalla società resistente al conteggio così come riformulato dal procuratore di parte ricorrente in quanto sostanzialmente limitata all'individuazione del percepito conteggiato nel rispetto dei criteri di cui all'ordinanza adottata.
Passando, a questo punto, all'esame della domanda giudiziale relativa all'impugnativa del licenziamento disciplinare comminatole in data ### con la conseguente condanna della società resistente al pagamento del danno ex art. 8 L. 604/66 da quantificarsi nella misura massima indicata da tale norma, essa va accolta alla stregua delle considerazioni che seguono.
In proposito parte ricorrente ha lamentato, oltre all'insussistenza del fatto contestato, la violazione del procedimento disciplinare per effetto di un ingiustificato ampliamento della contestazione disciplinare così come inizialmente formulata nonché la violazione del principio di proporzionalità.
Ciò posto, nel corpo del ricorso introduttivo, in merito all'effettiva dinamica degli episodi a lei contestati, ha allegato le seguenti circostanze di fatto: in data ###, nel mentre era intenta ad eseguire gli ordini e le direttive dei suoi diretti superiori, essendo nello specifico impegnata in una conversazione digitale con il dott ### per il reperimento di alcuni documenti dall'archivio aziendale, era stata ripresa dal rag. ### che, senza alcuna concreta motivazione, era entrato nella stanza dove era allocata la sua postazione lavorativa e, con fare perentorio, l'aveva invitata ad interrompere la conversazione; di conseguenza, stupita dalla condotta del rag ### gli aveva rappresentato, mostrando il proprio apparecchio telefonico, che era impegnata in una conversazione digitale con il procuratore della società, il dott Rae e non con altri soggetti; stante i toni perentori usati dal rag ### nei propri confronti, si era vista costretta ad interrompere la conversazione rappresentando con incredulità tale circostanza allo stesso dott Rae che, nell'immediatezza, si era espresso come da stralcio di conversazione allegato all'atto introduttivo del seguente tenore “ mi richiami immediatamente sono io che decido se poter usare il telefono o meno....”; pur avendo evidenziato tale circostanza al rag ### lo stesso si era espresso in modo sgarbato affermando “devi fare quello che dico io”; successivamente, durante lo spacco, all'incirca alle ore 14.00, il rag ### le si era avvicinato sottoponendole per la firma la lettera di contestazione formulata nel seguente tenore “in data ###, Lei utilizzava, nelle ore di lavoro, il telefono personale contravvenendo a quanto disposto nel regolamento aziendale da lei sottoscritto ed affisso in bacheca” (all 4); come emergeva chiaramente da tale lettera di contestazione, la società datrice inizialmente le aveva contestato solo la circostanza “peraltro non corrispondente al vero” di essere stata impegnata in una conversazione telefonica disattendendo precisi ordini e disposizioni aziendali; non essendo presente il legale rapp.te della società ### ed al fine di evitare ulteriori incomprensioni, aveva invitato lo stesso rag. ### ad allontanarsi dalla propria postazione di lavoro dicendogli che avrebbe provveduto a firmare il documento per ricezione all'esito della pausa pranzo; in seguito a tanto il rag. ### si era allontanato senza fare più ritorno per cui, al termine della giornata lavorativa, non avendolo più incontrato e ritenendo l'episodio concluso e frutto solo di un momento d'ira passeggero, aveva fatto ritorno a casa senza riceve alcuna ulteriore indicazione; il giorno 28-11-2022, ovvero il lunedì successivo agli eventi, si era recata presso il luogo di lavoro e, nel mentre era intenta ad accedere al portone di via ### era stata raggiunta da un messaggio Wh, inoltrato dal rag. ### del seguente tenore: “### oggi non dovrai presentarti in ufficio in quanto a seguito dei fatti di venerdi sei stata sospesa cautelativamente. Ti è stata inviata venerdi stesso una raccomandata di contestazione che ti perverrà probabilmente tra oggi e domani ### Giornata”; trovandosi già sul luogo di lavoro era stata ricevuta nella stanza del rag. ### che, in presenza del sig ### le aveva manifestato tutto il suo disappunto per la condotta da lei tenuta riferendole che avrebbe preso dei provvedimenti severi nei suoi confronti ed invitandola ad allontanarsi dall'ufficio affermando di non farvi più ritorno poiché sospesa; il successivo 30-11-2022 si era vista recapitare la lettera di contestazione a mezzo raccomandata ###-1 che, contrariamente alla prima versione, aveva rappresentato una diversa ed ulteriore argomentazione dei fatti arrivando ad arricchire le circostanze con una singolare affermazione ovvero che avrebbe reagito all'ingiusta contestazione aggredendo verbalmente il suo diretto “superiore” rag ### definendolo “fascista”.
A fronte di ciò la società resistente, a riprova dell'assoluta legittimità del licenziamento come in concreto intimato, ha offerto una ricostruzione della vicenda di cui è causa in termini totalmente differenti allegando nel corpo della memoria di costituzione le seguenti circostanze di fatto: in data ###, alle ore 10.00 circa, il responsabile rag. ### - fuori ufficio per motivi di lavoro - aveva telefonato in ufficio per richiedere alcune informazioni al sig. ### collega della ricorrente, chiedendogli, nell'occasione, di passargli al telefono la ### il sig. ### aveva riferito che non era possibile nell'immediato dal momento che la ### era impegnata al cellulare in una conversazione di carattere privato; giunto in ufficio verso le ore 12.10 circa, il rag. ### si era recato nella stanza della ### che, nell'occasione, era intenta a chattare con il suo cellulare per cui, presa alla sprovvista ed imbarazzata, gli aveva riferito che gli sms che stava scrivendo erano diretti al dott. ### il rag ### aveva, quindi, contattato nell'immediato il dott. Rae il quale gli aveva confermato che, nella richiamata circostanza, non aveva affatto contattato la ricorrente per cui le si era rivolto evidenziando che quanto riferito non corrispondeva al vero, ribadendole che per le comunicazioni di servizio durante l'orario di lavoro doveva usare il telefono fisso aziendale e che l'uso del telefono cellulare era vietato dal regolamento aziendale affisso in bacheca, sottoscritto da tutti i dipendenti per presa visione e consegna; il giorno stesso, poco dopo l'accaduto, il rag. ### aveva convocato la ricorrente nella sala riunioni alla presenza del collega, sig. ### riferendole che, in considerazione del fatto che nonostante i reiterati rimproveri verbali aveva continuato ad usare il telefono cellulare per motivi personali durante l'orario di lavoro, dal giorno successivo avrebbe dovuto riporre il cellulare nella sua stanza, precisandole che avrebbe potuto in ogni caso chiedere di usarlo per motivi d'urgenza; a quel punto la ricorrente, con fare arrogante, rivolgendosi al suo responsabile, rag. ### con toni piuttosto alti, aveva riferito testualmente:” sei un fascista, io il mio cellulare non lo lascio nella tua stanza!”; attesa la gravità dell'accaduto ed alla luce del fatto che l'episodio era accaduto in un area coworking, dunque, in presenza di altre persone, le era stata recapitata a mezzo raccomandata la lettera di contestazione in atti cui era seguita l'intimazione del provvedimento disciplinare.
Tanto premesso in ordine alla diversità della ricostruzione fattuale della vicenda di cui è causa così come riportata nei rispettivi atti difensivi e passando, a questo punto, all'esame delle deposizioni testimoniali, il teste ### ha dichiarato:” Indifferente. ### dipendente della società convenuta dal febbraio 2022 anche se vi ho lavorato fin dal 2016 per effetto di un provvedimento di distacco della società ### srl. ### il responsabile amministrativo della struttura ed il giorno 25/11/2022 ero fuori sede ed avevo chiamato il collega ### sul telefono fisso per avere alcune informazioni d'ufficio ed, in quell'occasione, gli avevo chiesto se poteva passarmi al telefono la ricorrente. In quella circostanza il sig. ### mi riferì che era impegnata al telefono in una conversazione personale sul cellulare. Preciso che l'ufficio è piccolo e che la ricorrente e il sig ### lavoravano su due scrivanie separate ma vicine così da formare una L ###. ### rientrato in ufficio intorno alle ore 12:00 e, nel recarmi nella mia stanza, ho visto la ricorrente chattare con il suo cellulare personale che ha provveduto a lanciare di sobbalzo non appena si è accorta della mia presenza. Dal momento che in azienda è consentito l'uso del telefonino cellulare per motivi personali solo dietro autorizzazione, essendo, in ogni caso, a disposizione dei dipendenti il telefono fisso nonché quello cellulare aziendale, ho chiesto alla ricorrente cosa stesse facendo con il cellulare e la stessa mi ha risposto che stava chattando con il sig. ### procuratore generale della società. In quell'istante ho contattato il sig Rae che mi ha riferito che non stava chattando con la ricorrente. Ho convocato verbalmente sia ### che la ricorrente in sala riunioni per discutere della questione relativa all'uso del cellulare, per cui ci siamo accomodati nella sala riunioni in cui ho chiarito, ulteriormente, le modalità di utilizzo del cellulare in azienda. In quel frangente ho avvertito la ricorrente e il sig ### che, qualora il comportamento fosse continuato, sarei stato tenuto a chiedere loro di portare i cellulari nella mia stanza per riporli sul mio mobiletto cosi che avrebbero potuto usarli solo dietro mia autorizzazione. In quella circostanza la ricorrente mi ha detto: “Tu questo non lo puoi fare. Sei un fascista” sbattendo i pugni sul tavolo. Preciso che il nostro ufficio è posizionato all'interno di uno studio di avvocati in cui abbiamo fittato due stanze, per cui l'affermazione della ricorrente, essendo stata proferita a voce alta, è stata udita da più persone. In quella occasione ho avvertito la ricorrente che sarebbe stato attivato un procedimento disciplinare. Il Giudice esibisce al teste il documento n°4 allegato alla produzione di parte ricorrente ed il teste risponde: “Non è la contestazione disciplinare che è stata notificata alla ricorrente, non so dire cosa sia e non so riferire sulla sua provenienza. La contestazione disciplinare che ha preceduto il licenziamento l'ho spedita personalmente verso le ore 17:00/18:00 di quella medesima giornata, tramite raccomandata, dopo averla letta e non è questa che mi viene esibita in visione. Non mi risulta che alla ricorrente, al momento della contestazione verbale, sia stata sottoposta in visione anche una contestazione scritta quale quella allegata al n° 4 che mi è stata esibita in visione e che avrebbe dovuto firmare stesso in quel momento. Se ben ricordo la domenica sera successiva all'episodio o forse lo stesso lunedì mattina verso le ore 7:00 ho avvertito la ricorrente che non si sarebbe dovuta presentare al lavoro in quella giornata in quanto le sarebbe stata recapitata una raccomandata, quella da me spedita il venerdì precedente, con cui, cautelativamente, veniva sospesa dal lavoro. Generalmente per comunicazioni di ufficio si è sempre provveduto con il telefono fisso oppure con il cellulare aziendale e, solo in casi eccezionali, tramite l'uso di telefoni personali…”.
A sua volta il teste sig ### ha dichiarato:” ### il cognato del sig. ### che è responsabile amministrativo della resistente. Conosco la ricorrente in quando anche io lavoro alle dipendenze della resistente dal 14/11/2022 e sono attualmente in servizio. Il 25 novembre 2022 partecipai anche io nella qualità di impiegato amministrativo alla riunione che si tenne poco prima delle 13:00 nei locali aziendali alla presenza anche della ricorrente e del responsabile amministrativo sig ### Nel corso della stessa riunione si discusse del divieto dell'uso improprio del cellulare durante l'orario lavorativo da parte di noi impiegati del settore amministrativo, all'epoca io e la ricorrente. Qualche ora prima della riunione il rag ### mi contattò non ricordo se sul telefono fisso o sul cellulare aziendale per informarsi su pratiche che stavo seguendo ed in quella circostanza mi chiese di passare il telefono alla sig.ra ### ma io gli risposi che ero impossibilitato a farlo in quanto si era allontanata dalla stanza per rispondere ad una telefonata sul suo cellulare privato. In quella circostanza io comunicai alla sig.ra ### che era a pochi metri da me, che il ### voleva comunicare con lei telefonicamente e quest'ultima mi rispose di attendere “un attimo “ ma, contestualmente, il sig ### mi riferì che non era più necessario in quanto a breve sarebbe arrivato in ufficio. Nel corso della riunione ### ribadì che nelle ore di lavoro il telefono privato non andava utilizzato e che, in ipotesi eccezionali, bisognava chiedere il permesso a lui, anche eventualmente per utilizzare la linea aziendale per esigenze personali. In quel medesimo contesto ### ribadì che la ricorrente era stata richiamata più volte e che avrebbe voluto non arrivare al punto di sottrarci i nostri telefoni personali per tenerli in una apposita postazione all'interno dell'ufficio, ma che lo avrebbe fatto qualora si fosse trovato costretto. A questo punto la ### si rivolse al sig. ### dicendo : “ questo non lo puoi fare, sei un fascista”. A quel punto ### le comunicò che avrebbe provveduto a comunicarle un provvedimento disciplinare, senza chiarire quale in concreto sarebbe stato. In quel contesto il ### non parlò di licenziamento. Non mi risulta che le comunicazioni di servizio avvenissero mediante l'uso di telefoni personali in quanto sia io che la ricorrente siamo sempre stati contattati, per le esigenze aziendali, o sul telefono fisso, o sul cellulare aziendale.
Conosco il dott ### che è il procuratore della società. Non ho mai assistito a telefonate di quest'ultimo, per motivi lavorativi, sul cellulare personale della ricorrente. Prima della riunione, dal momento che le stanze sono attigue, ho sentito il sig ### contattare il sig Rae ma non so riferire il contenuto preciso della telefonata. Il mobilio dove è riposta tutta la documentazione aziendale è situato all'interno della medesima stanza ove erano posizionate le scrivanie mia e della ### Io non ho partecipato alla redazione di nessun provvedimento disciplinare ma nel pomeriggio fui incaricato dal ### di inviare una raccomandata alla ricorrente, cosa che, però, non riuscii a fare in quanto, pur essendomi recato all'ufficio postale sito a pochi metri dall'ufficio, lo trovai chiuso per cui ritornai in ufficio e riconsegnai la raccomandata al ### che mi disse che se ne sarebbe occupato personalmente. Ho avuto modo di leggere il contenuto dell'atto e si trattava della contestazione disciplinare. Dopo pochi minuti dalla riunione il ### andò via dall'ufficio per cui escludo che durante la pausa pranzo abbia consegnato la contestazione disciplinare nelle mani della ### Se ben ricordo l'episodio di cui ho parlato accadde di venerdì ed il lunedì successivo la ricorrente si presentò al lavoro in quanto non aveva ancora ricevuto la raccomandata. La mattina del lunedì il ### e la ricorrente arrivarono quasi contestualmente ed il primo le riferì che non avrebbe dovuto riprendere la sua attività lavorativa in quanto aveva provveduto ad inviarle una contestazione disciplinare a mezzo posta preannunciandole che doveva ritenersi sospesa dal servizio, cosa che disse di averle, tra l'altro, comunicato anche a mezzo whatsapp sul suo cellulare personale…. Per qualunque questione lavorativa sia io che la ricorrente dovevamo rivolgerci al sig. ### Io non ho mai intrattenuto conversazioni di carattere aziendale a mezzo whatsapp con il sig. ### né sul cellulare privato né, tantomeno, su quello aziendale”.
In definitiva, dall'istruttoria testimoniale espletata in corso di causa da una parte è risultata del tutto smentita la circostanza - invocata dalla ricorrente a fondamento della lamentata violazione del procedimento disciplinare - inerente l'esistenza di una prima lettera di contestazione avente ad oggetto il solo uso improprio del cellulare per motivi personali durante le ore lavorative che si sarebbe rifiutata di firmare a mano per ricezione e, poi, illegittimamente ampliata “ad arte” ( con la conseguente legittimità del licenziamento così come effettivamente irrogato sotto il profilo formale) e, dall'altra, ha trovato conferma la circostanza inerente l'accusa da lei rivolta al rag ### suo superiore gerarchico, di essere un “fascista” alla presenza di un altro collega, così come contestatale nella contestazione disciplinare recapitatale a mezzo raccomandata e posta alla base del successivo provvedimento di licenziamento.
Né alcun rilievo probatorio - al fine di confermare la veridicità della tesi attorea - può essere riconosciuto allo stralcio della conversazione allegato a mezzo whatsapp con il dott. Rae - allegato al n. 3 del ricorso introduttivo - del seguente tenore“ mi richiami immediatamente sono io che decido se poter usare il telefono o meno....” per due ordini di considerazioni: sia perché non vi è alcuna prova in atti della effettiva riconducibilità al dott. Rae del messaggio suindicato sia perché il suo stesso tenore smentisce - di per se solo - la ricostruzione fattuale della parte ricorrente così come effettuata nel corpo del ricorso introduttivo laddove costei - come già prima evidenziato - da una parte ha lamentato che, stante i toni perentori usati dal rag. ### nei propri confronti, si era vista costretta ad interrompere la conversazione rappresentando con incredulità tale circostanza allo stesso dott Rae che, nell'immediatezza, si sarebbe espresso come da stralcio di conversazione allegato all'atto introduttivo e dall'altro parte ha precisato che, solo successivamente, durante lo spacco, all'incirca alle ore 14.00, lo stesso rag. ### le si sarebbe avvicinato sottoponendole per la firma la lettera di contestazione formulata nel seguente tenore “in data ###, Lei utilizzava, nelle ore di lavoro, il telefono personale contravvenendo a quanto disposto nel regolamento aziendale da lei sottoscritto ed affisso in bacheca” (all 4), laddove, al contrario, nel medesimo stralcio della conversazione con il dott. Rea allegato in atti già compare proprio la foto della lettera di contestazione suindicata che, invece, secondo il concreto concatenarsi degli eventi così come ricostruiti secondo la tesi attorea, non avrebbe dovuto essere ancora né redatta nè a lei sottoposta.
Una volta confermata l'effettiva sussistenza della condotta così come contestata alla parte ricorrente nei termini sia di uso improprio del cellulare sul luogo di lavoro sia di impiego del termine “ fascista” nei confronti del rag. ### suo superiore gerarchico, all'interno del medesimo contesto aziendale ed alla presenza del collega ### è, certamente, a quest'ultimo profilo che occorre fare riferimento al fine di valutare la legittimità del licenziamento così come intimato sotto l'aspetto della lamentata violazione del criterio di proporzionalità.
Ed, infatti, in relazione all'uso improprio del cellulare, dalla medesima contestazione disciplinare in atti si evince come esso fosse avvenuto - seppure in diversi contesti temporali - solo nel corso della giornata del 25.11.2022 così da non poter certamente integrare una giusta causa di licenziamento.
In relazione alla contestata “ insubordinazione” valgono, invece, le seguenti considerazioni. ### la consolidata giurisprudenza della Suprema Corte quella di giusta causa di licenziamento è una nozione legale che prescinde dalla previsione del contratto collettivo. ### delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha, al contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo, valenza meramente esemplificativa sicché non preclude un'autonoma valutazione del giudice di merito in ordine alla idoneità di un grave inadempimento o di un grave comportamento del lavoratore, contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (cfr. in termini Cass. n. 7567/2020; Cass. n. 13411/2022; Cass. n. 19023/2019; Cass. 27004/2018 ed ivi le richiamate Cass. n. 14321/2017; Cass. n. 52830/2016; Cass. 9223/2015).
Ne consegue che il giudice chiamato a verificare l'esistenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo di licenziamento incontra solo il limite che non può essere irrogato un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione, vale a dire alla condotta contestata al lavoratore, (oltre Cass. 27004/2018 e Cass. n. 14321/2017, citate, si veda anche Cass. n. 6165/2016; Cass. 19053/2005).
Al giudice del merito è consentito, perciò, di escludere che un comportamento, pur sanzionato dal contratto collettivo con il licenziamento, integri una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo di licenziamento, avuto riguardo sia alle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato sia alla compatibilità con il principio di proporzionalità.
Stante, però, l'inderogabilità della disciplina dei licenziamenti, il giudice è sempre tenuto a verificare se la previsione del contratto collettivo sia conforme alle nozioni di giusta causa e giustificato motivo (in argomento, Cass. n. 6498/2012, in motivazione).
Infatti, la scala valoriale recepita nel c.c.n.l. costituisce uno dei parametri cui fare riferimento ai fini del giudizio di sussunzione della fattispecie concreta nella clausola generale di cui all'art. 2119 c.c. Tuttavia, anche quando la condotta sia astrattamente corrispondente alla fattispecie tipizzata contrattualmente, occorre pur sempre che essa sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa, attraverso un accertamento in concreto della proporzionalità tra sanzione ed infrazione, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo (v. Cass. n. 9396/2018; Cass. n. 28492/2018; Cass. 14063/2019, nonché Cass. n. 8826/2017; Cass. n. 27004/2018, Cass. n. 19023/2019).
Ne discende che il giudice deve verificare la condotta, in tutti gli aspetti soggettivi ed oggettivi che la compongono, anche al di là della fattispecie contrattuale prevista ( n. 27004/2018, citata).
Inoltre, ai fini della valutazione di proporzionalità, l'indagine giudiziale deve essere diretta non solo a verificare se il fatto addebitato sia o meno riconducibile alle disposizioni della contrattazione collettiva che consentono l'irrogazione del licenziamento, ma anche, attraverso una valutazione in concreto, se il comportamento tenuto, per la sua gravità, sia suscettibile di ledere in modo irreparabile la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, con particolare attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza (v. Cass. n. 18195/2019).
Nel caso in esame, l'art. 49 del ### di settore prevede che “ il lavoratore potrà incorrere nel licenziamento senza preavviso in tutti quei casi, anche non richiamati nel presente contratto, in cui la gravità del fatto non consenta la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto di lavoro quali, a titolo meramente esemplificativo e non esaustivo, ...grave insubordinazione verso i superiori gerarchici”.
Ciò posto, come già innanzi evidenziato, dall'istruttoria testimoniale espletata in corso di causa è emerso che il rag. ### - superiore gerarchico della ricorrente - l'aveva convocata nella sala riunioni alla presenza del collega, sig. ### riferendole che, in considerazione del fatto che nonostante i reiterati rimproveri verbali aveva continuato ad usare il telefono cellulare per motivi personali durante l'orario di lavoro, qualora il comportamento fosse continuato, sarebbe stato costretto a chiederle di portare il cellulare nella sua stanza per riporlo sul suo mobiletto cosi che avrebbe potuto usarlo solo dietro sua autorizzazione e che, a quel punto, la ricorrente si era rivolta nei suoi confronti riferendogli testualmente la seguente espressione:” sei un fascista, io il mio cellulare non lo lascio nella tua stanza!”.
Tanto chiarito in termini di ricostruzione fattuale della vicenda de qua, va richiamato quell'orientamento giurisprudenziale ormai consolidato secondo il quale il rifiuto di eseguire un ordine del proprio datore impartito in rapporto alla prestazione lavorativa, pur costituendo l'ipotesi più comune di insubordinazione - come recentemente ribadito dalla Corte di Cassazione che ha ritenuto legittimo il licenziamento di un lavoratore che si era rifiutato di cambiare squadra di lavoro (Cass., Sez. Lav., 4 febbraio 2020, 2515) - non ne esaurisce la fattispecie.
Invero, detta fattispecie si estende a qualsiasi comportamento che incide sull'osservanza di tutte le disposizioni per la disciplina del lavoro ricevute dal datore e dai suoi collaboratori in rapporto all'organizzazione in cui il dipendente è inserito.
Come nel caso di specie, non è, tuttavia, necessario che tale comportamento abbia recato danno all'azienda; era stato, ad esempio, ritenuto legittimo il licenziamento di un dipendente che aveva abbandonato il posto di sorveglianza a cui era addetto (Cass., Sez. Lav., 10 gennaio 1986, n. 88) e, analogamente, quello di un addetto al controllo notturno delle apparecchiature che si era allontanato dal luogo ove stava svolgendo la sua prestazione lavorativa (### Roma, 10 luglio 1985).
Ciò premesso, si rileva come la vasta casistica della Cassazione in materia sia raramente lineare nell'affrontare la fattispecie in esame, posto che non ogni alterco o mancanza di rispetto nei confronti dei superiori gerarchici integrano un'ipotesi di insubordinazione.
Sul punto, si osserva, infatti, che la Suprema Corte non aveva ritenuto riconducibili alla nozione di insubordinazione grave - legittimante il licenziamento per giusta causa del lavoratore - le espressioni irriguardose (ma non minacciose) rivolte all'amministratore della società se effetto di una reazione emotiva ed istintiva a rimproveri ricevuti (Cass., Sez. Lav., n. 6569/2009), l'uso di parole offensive e volgari da parte di un lavoratore che si sentiva vittima di una maliziosa delazione (Cass., Sez. Lav., 11 febbraio 2015, 2692) o, ancora, la reazione ad atti del superiore gerarchico estranei al rapporto di lavoro e palesemente arbitrari, benché la reazione fosse stata espressa in modo qualificabile come illegittimo (Cass., Sez. Lav., 19 dicembre 1998, n. 12717).
Parte della giurisprudenza ha, inoltre, statuito che al fine di qualificare l'insubordinazione va, altresì, considerata l'eventuale provocazione subita dal lavoratore (Cass., Sez. Lav., 5 settembre 2000, n. 11706).
Nell'accertamento della sussistenza della fattispecie si assiste, dunque, ad un combinarsi di valutazioni oggettive e soggettive: quanto più lieve è la gravità oggettiva della condotta, tanto più marcata dovrà essere la intenzionalità della stessa perché il licenziamento sia legittimo.
Ciò posto e passando, a questo punto, all'esame della fattispecie concreta oggetto del presente giudizio, va, in via preliminare, evidenziato che il concetto di insubordinazione va qualificato come negazione della subordinazione e, cioè, come aperta contestazione dei poteri del datore e lesione del diritto del datore all'ordinato svolgimento della prestazione e del suo prestigio derivante dal buon andamento dell'azienda, richiedendosi, pertanto, in generale, la effettiva riferibilità del comportamento al contratto di lavoro.
Sostiene parte resistente che in questo modulo sia da inquadrare anche il comportamento in esame in quanto contestazione, da parte della ricorrente, nei confronti del proprio responsabile per il suo modo di esprimersi e di realizzarsi nella gestione del potere gerarchico e, pertanto, da considerarsi non esterno al rapporto di lavoro.
Giova, tuttavia, osservare che il rapporto di subordinazione investe lo spazio del potere assegnato al superiore (e dei simmetrici obblighi del dipendente a questi subordinato): non gli atti del superiore palesemente ed incontrovertibilmente (anche per illegittima forma) esterni a questo spazio. E, pertanto, la (pur non legittima) reazione ad atti caratterizzati da questa palese misura di estraneità (al rapporto di subordinazione) non costituiscono insubordinazione.
E, nel caso in esame, il comportamento del rag. ### di minaccia di sottrarre il cellulare della ricorrente durante l'orario lavorativo per riporlo su un mobiletto all'interno della sua stanza così da consentirne l'utilizzazione solo previa sua specifica autorizzazione - cellulare costituente un bene di proprietà personale della dipendente e che, pertanto, non avrebbe potuto in alcun modo esserle legittimamente sottratto potendo l'uso abusivo dello stesso sul posto di lavoro essere tutt'al più oggetto di una specifica contestazione disciplinare ad esso relativa - non costituendo un modo di esprimersi e realizzarsi del superiore nella gestione del potere gerarchico, e' da considerarsi palesemente estraneo al rapporto di lavoro: ciò in quanto pur risultando che il suddetto comportamento sia stato materialmente attuato in occasione dell'effettivo esercizio delle mansioni di responsabile gerarchico nel corso di una riunione con la ricorrente e con un collega della stessa, esso resta ovviamente esterno rispetto ai normali poteri di un superiore gerarchico ed in tal modo non riferibile ai simmetrici obblighi del subordinato dipendente.
E la reazione a questo comportamento non può ritenersi costituisca insubordinazione (peraltro disciplinarmente rilevante ai fini della controversia solo ove assuma grave misura) tale da determinare la lesione dei diritti e del prestigio del datore e la violazione degli obblighi di diligenza, dovendosi rilevare, al contrario, che il comportamento in controversia, non diretto contro il datore di lavoro bensì contro colui che usava in modo distorto dei relativi poteri, non sia riferibile al sinallagma contrattuale.
In definitiva, le espressioni ingiuriose dirette al superiore gerarchico, quando costituiscono la reazione ad un comportamento offensivo e provocatorio, non costituiscono giusta causa di licenziamento, dovendosi, in proposito, sottolineare come la valutazione della gravità del fatto sia in realtà basata sull'elemento psicologico e, cioè, sul fatto che l'espressione ingiuriosa debba considerarsi di natura reattiva rispetto ad una provocazione.
La reazione, pertanto, nella specie, è stata certamente eccessiva ma esclude l'insubordinazione per oltraggio in quanto non volta a contestare l'autorità gerarchica ma a reagire ad un comportamento ritenuto offensivo e provocatorio; a tal fine non hanno rilievo “i fatti in se” ma “la percezione” che di essi ha avuto il soggetto provocato ( Cass. n. 11706/2000).
In definitiva, il concreto contesto in cui è stata adoperata l'espressione “ sei un fascista” lascia ragionevolmente ipotizzare che il riferimento al fascismo sia stato fatto in maniera indiretta, ossia involgendo un modo di comportarsi ritenuto arbitrario ed antidemocratico e non sia stato, invece, rivolto alla persona del superiore gerarchico; quindi, parte ricorrente non ha espresso un giudizio di valore negativo nei suoi diretti confronti essendo stata la finalità dell'espressione adoperata quella di esprimere una forma, sia pur irrituale, di protesta nei confronti di un ordine di servizio palesemente illegittimo.
Tali elementi depongono nel senso di attribuire alla citata espressione il valore di una mera “intemperanza” in quanto tale inidonea a dimostrare una volontà di insubordinazione o di aperta insofferenza nei confronti del potere disciplinare e organizzativo del datore di lavoro.
Pertanto, non si ravvisano sul piano della fattispecie imputata alla ricorrente, gli estremi identificativi dell'oltraggio e/o dell'ingiuria rivolta ad un superiore.
Non sussiste, dunque, il fatto contestato alla ricorrente, nella sua accezione non solo materiale ma anche giuridica, per cui non si è realizzato un inadempimento sanzionabile con il licenziamento.
Tanto premesso in ragione della data di assunzione di parte ricorrente va applicata la tutela prevista dal job act.
Ciò posto, all'art. 3 D lgs 23/2015 “### per giustificato motivo e giusta causa” si prevede che “1. ### quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità”.
A sua volta all'art. 9 “Piccole imprese e organizzazioni di tendenza” si prevede che “1. Ove il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all'articolo 18, ottavo e nono comma, della legge n. 300 del 1970, non si applica l'articolo 3, comma 2 e l'ammontare delle indennità e dell'importo previsti dall'articolo 3, comma 1, dall'articolo 4, comma 1 e dall'articolo 6, comma 1, è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità”.
Nel caso di specie, trattandosi di un rapporto di lavoro intercorso tra le parti in causa dal 17.02.2022 al 13.12.2022 ed essendo pacifica l'applicabilità della sola tutela obbligatoria per il requisito dimensionale della società resistente così come si evince dalle conclusioni del ricorso introduttivo, quest'ultima va, pertanto, condannata al pagamento, in favore di parte ricorrente, di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari ad una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dall'atto di costituzione in mora del 09.01.2023 ( cfr. all. n. 9) all'effettivo soddisfo.
Spetta, altresì, alla parte ricorrente, per effetto dell'illegittimità del licenziamento così come dichiarata, l'indennità sostitutiva del preavviso nella misura di legge.
Sugli importo dovuti e così come accertati in questa sede vanno, altresì, calcolati gli interessi legali e la rivalutazione monetaria dalle scadenze mensili per le differenze retributive e dalla cessazione del rapporto per il TFR e l'indennità sostitutiva del preavviso e fino al soddisfo. ### della lite, solo in parte favorevole alla ricorrente, giustifica la compensazione delle spese processuali nella misura della metà.
La restante parte segue la regola della soccombenza e si liquida come da dispositivo. PQM Il Giudice del ### definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da ### con ricorso del 21.06.2023 nei confronti di ### s.r.l., in persona del legale rapp.te p.t, così provvede: in parziale accoglimento della domanda giudiziale dichiara l'illegittimità del licenziamento intimato alla parte ricorrente in data ### e, per l'effetto, condanna la società resistente al pagamento, in suo favore, di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari ad una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dall'atto di costituzione in mora del 09.01.2023 all'effettivo soddisfo; condanna, altresì, la società resistente al pagamento, in favore di parte ricorrente, dell'importo pari ad € 6.685,43 ( al lordo delle ritenute previdenziali e fiscali) di cui € 1.302,94 a titolo di TFR oltre all'indennità sostitutiva del preavviso nella misura di legge ed oltre alla rivalutazione monetaria ed agli interessi legali dalle scadenze mensili per le differenze retributive e dalla cessazione del rapporto per il TFR e l'indennità sostitutiva del preavviso e fino al soddisfo; condanna la società resistente al pagamento, nella misura della metà, delle spese di lite liquidate, per l'intero, in € 2.695,00 per compenso professionale, con attribuzione, oltre oneri accessori come per legge ed oltre ad € 259,00 a titolo di contributo unificato; compensa le spese per la restante parte. Così deciso in Napoli in data ### Il Giudice
del ###ssa ### n. 11745/2023
causa n. 11745/2023 R.G. - Giudice/firmatari: Dell'Erario Matilde