testo integrale
#### IV sezione civile in persona della G.M. ### ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. 1142/16 R.G., avente ad oggetto ### USUCAPIONE, pendente TRA ### elettivamente domiciliata presso l'avv. ### del ### di ### che la rappresenta e difende in virtù di procura a margine dell'atto di citazione ####, in persona del sindaco e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato presso l'avv. ### che lo rappresenta e difende in virtù di procura a margine della comparsa di costituzione e risposta ###: come da verbali ed atti di causa.
OGGETTO: usucapione ### E IN DIRITTO DELLA DECISIONE ### ha convenuto in giudizio il Comune di ### per dichiarare avvenuto l'acquisto a titolo originario del terreno alla località ### e individuato entro la maggiore estensione della particella 5536 del foglio 7, esteso 349,65 metri quadrati di cui 104,844 su cui insiste una villetta, 181,271 adibito a corte e 63,525 adibiti a strada condominiale. ### ha allegato che il fabbricato a uso abitativo era stato edificato nel 1983 e di aver acquistato i detti cespiti l'8 settembre 1990 da tale ### con una scrittura privata non autenticata di cui ha prodotto copia; e che la sua dante causa l'aveva a sua volta acquistata (sempre con scrittura privata non autenticata e non trascritta) da ### che aveva ereditato il terreno dal padre ### Ha esposto l'attrice che in favore di quest'ultimo era stato emesso un provvedimento di legittimazione da parte del ### per gli ### il 6 marzo 1976 e che l'occupatore ne aveva avuto sempre la libera disponibilità trasmettendolo alla sua morte alla figlia, la quale lo aveva poi venduto a ### questa vi aveva edificato la villetta e poi lo aveva venduto a essa attrice, che l'aveva posseduto come proprietaria fin dall'acquisto per oltre vent'anni senza corrispondere alcun canone e senza ricevere mai alcuna contestazione, perfezionando così l'acquisto per usucapione. ### si è costituito e ha dedotto che il bene non può essere usucapito poiché non sono suscettibili di acquisto in tal senso i beni demaniali, tanto più se gravati da usi civici, i quali sono inalienabili, incommerciabili e non suscettibili di usucapione.
Ha dedotto il Comune che la cessione tra provati di beni della categoria a) di cui all'articolo 11 delle legge n. 1766/27 - tra cui è compreso quello oggetto di causa, accatastato come qualità “pascolo”- non possono essere mutati nella destinazione. ### dunque ha chiesto il rigetto della domanda e in subordine che fosse accertato l'esatto adempimento della procedura di legittimazione e la verifica del compenso per la liquidazione medesima. In sede conclusionale il convenuto ha ### chiesto che l'attrice, in caso di accoglimento della domanda, sia condannata a corrisponderne il valore.
La causa è stata istruita con acquisizioni documentali e prova orale. All'esito, in accordo tra loro sebbene già decorse le preclusioni istruttorie, le parti hanno prodotto copia della perizia svolta in altro analogo giudizio avente a oggetto il fabbricato confinante in cui il consulente tecnico d'ufficio ha svolto verifiche sulla identificazione delle particelle e sulla storia catastale dei luoghi complessivamente, dunque anche riguardo all'oggetto della domanda svolta nel presente giudizio.
Il testimoni della parte attrice, ### ha riferito del possesso da parte dell'attrice da oltre vent'anni, precisando che l'immobile è adoperato come “casa al mare” e che la ### ha sempre pagato le imposte e curato la manutenzione del bene; a chiarimenti da parte della difesa del convenuto ha confermato di essere a conoscenza del carattere abusivo della costruzione che non è mai stata oggetto di provvedimento di sanatoria.
Ciò premesso, è evidente che una questione centrale per la risoluzione della controversia è rappresentata dalla natura pubblica del bene di cui si vanta l'usucapione, che il Comune ha eccepito senza tuttavia produrre alcuna documentazione in proposito.
In ordine alla valenza probatoria della documentazione costituita dalla visura catastale e prodotta in atti, è bene rilevare subito che essa non è idonea a dimostrare alcunché in merito alla appartenenza del fondo in questione, giacché è ben noto che le visure e le mappe (e anche le certificazioni) catastali possono assumere valore - e sussidiario - solo in materia di determinazione di confini [Cass. n. 5842/04] ma non in tema di prova della proprietà: prova che necessita di ben altri e più approfonditi elementi. Ed è opportuno anche evidenziare che, se si controverte in tema di usucapione, sarebbe onere di chi la invoca dimostrare la proprietà in capo al soggetto nei cui confronti agisce e determinare in modo certo il bene che si chiede nella sua estensione e allocazione.
Quanto al primo aspetto, poi, solo la produzione in giudizio del titolo di appartenenza in capo al destinatario passivo della pronuncia di usucapione e della precisa attestazione da parte del ### dei ### relativa alle trascrizioni contro il predetto fino alla data di instaurazione del giudizio consente di avere contezza del patrimonio attuale di quest'ultimo; l'accertamento dell'acquisto di un bene per usucapione non può prescindere, in generale, dall'accertamento puntuale ed attuale della proprietà del bene medesimo in capo ai soggetti nei confronti dei quali la pronuncia deve essere resa: e il discorso non cambia se il bene è di proprietà pubblica giacché l'appartenenza del bene al patrimonio disponibile degli enti pubblici non può che essere provata in modo puntuale.
Com'è noto, secondo l'articolo 42 della ### la proprietà è pubblica o privata. La norma, più che descrivere il titolo di appartenenza dei beni pubblici, si ritiene tesa ad attestare e giustificare nel sistema la legittimità costituzionale di un loro regime speciale e differenziato.
Beni pubblici sono quelli appartenenti agli enti pubblici e, costituendo gli strumenti di cui la P.A. realizza le proprie funzioni, sono assoggettati a una normativa differente rispetto a quella che si applica agli altri beni quanto ai profili di uso, circolazione e tutela; come affermato da autorevole dottrina, la differenziazione di regime è tesa salvaguardare i beni pubblici, funzionali al perseguimento di fini di pubblico interesse, dai «pericoli» di facile sviamento che deriverebbero dall'applicazione del diritto comune, sia quanto all'ente proprietario (che sarebbe tentato di disfarsi dei beni in caso di necessità di mezzi finanziari), sia nei confronti dei terzi e dei creditori dell'ente (da cui i caratteri della imprescrittibilità e della impignorabilità).
Il codice civile distingue i beni pubblici in demaniali (articoli 822, 824 e 825 c.c.) e patrimoniali indisponibili (articoli 826 e 830 c.c.): sono beni demaniali quei beni, immobili o universalità di mobili, appartenenti agli enti territoriali (Stato, ####, elencati nell'articolo 822 c.c. e i quali rispondono a dirette esigenze della collettività. Sono demaniali per loro intrinseca qualità o per il fatto di appartenere a enti territoriali; per i primi si parla di “demanio necessario”, costituito dal demanio marittimo, idrico e militare (articolo 822, comma 1 c.c.) e cioè da beni le cui stesse «caratteristiche fisicofunzionali» ne connotano lo statuto, mentre per gli altri ci si riferisce alla categoria “demanio accidentale o eventuale”, comprendente beni che non sono per loro natura di proprietà pubblica ma che acquistano carattere demaniale solo se divengano di proprietà degli enti pubblici territoriali (strade, autostrade, strade ferrate, aerodromi, acquedotti, immobili di interesse storico e artistico, raccolte museali) e altri beni assoggettati al regime proprio del demanio pubblico dalla legge (articolo 822 c.c., comma 2 c.c.). ### 823 c.c. detta il regime giuridico dei beni demaniali: essi sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano. ###à comporta che sono nulli gli eventuali atti dispositivi di beni demaniali posti in essere dalla pubblica amministrazione, poiché i detti beni sono assoggettati a un vincolo reale che ne rende impossibile l'oggetto secondo l'articolo 1418 c.c.; parziale deroga al divieto di alienazione è posta, com'è noto, in materia di beni demaniali culturali.
Ciò posto, è opportuno ricordare che tutti i beni non demaniali che appartengono allo Stato e agli enti pubblici ne costituiscono il patrimonio, ma soltanto alcuni di essi rientrano nel patrimonio indisponibile. ### 826 c.c. contiene una elencazione (ritenuta non tassativa) di beni sia immobili che mobili i quali possono appartenere anche a enti pubblici non territoriali; la differenza sta nella destinazione e infatti i beni del patrimonio indisponibile sono vincolati a una destinazione di pubblica utilità esattamente come i beni demaniali. Anche per essi vale la distinzione tra patrimonio necessario e patrimonio accidentale, poiché vi sono beni che rientrano nella categoria del patrimonio indisponibile per loro caratteristiche naturali (miniere, acque minerali termali, cave e torbiere e così via) e altri che vi rientrano solo in conseguenza della destinazione loro impressa (edifici destinati a sede di uffici pubblici, arredi, dotazione della ### della Repubblica). Quanto al loro regime giuridico, l'articolo 828, comma 2 c.c. dispone che essi non possono essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi stabiliti delle leggi che li riguardano. Il divieto di distrazione dalla destinazione è dunque comune al regime di entrambe le categorie di beni, patrimoniali indisponibili e demaniali, ma così non è per il divieto di alienazione: i beni patrimoniali indisponibili, infatti, non sono incommerciabili pur essendo gravati da uno specifico vincolo di destinazione all'uso pubblico.
Premesse le su esposte distinzioni essenziali, giacché nel presente giudizio è stata posta la questione della libertà di circolazione del fondo oggetto di causa qualificandolo come facente parte del demanio dell'ente, è indispensabile ora ricordare il regime di acquisto e di perdita dei caratteri di demanialità e di appartenenza al patrimonio ### dell'ente pubblico.
In mancanza di disposizioni specifiche nel codice civile, la dottrina più autorevole ha elaborato il ricordato criterio di classificazione dei beni demaniali, distinguendo demanio “naturale” e demanio “artificiale”: i beni compresi nella prima categoria acquistano la qualità demaniale per il solo fatto giuridico e naturale della loro esistenza, possedendo tali beni i requisiti già previsti dalla legge per la loro riconduzione nell'ambito del demanio (le acque e il lido del mare, per esempio). I beni che compongono il demanio artificiale, invece, sono opera dell'uomo e per assumere la qualità di beni pubblici necessitano dell'esercizio di un'attività amministrativa che li costituisca (o li trasformi) e li destini formalmente o di fatto all'uso diretto o all'uso pubblico: si ritiene, in proposito, che l'inclusione dei beni negli elenchi di beni demaniali che le amministrazioni pubbliche redigono non determina di per sé l'acquisto della qualità demaniale, trattandosi di atti meramente dichiarativi [Cass., un., n. 10876/08, sez. un. n. 1831/96, sez. un. n. 245/87; Cass. n. 23705/09, 2471/01].
È possibile la «sdemanializzazione» ovvero il passaggio dei beni dal demanio pubblico al patrimonio, cui consegue la cessazione della disciplina di vincolo alla circolazione (incommerciabilità). Al riguardo è bene precisare che, nonostante la disposizione di cui all'articolo 829 c.c., per cui il passaggio dei beni dal demanio al patrimonio deve essere dichiarato dall'autorità amministrativa e dell'atto deve essere dato annunzio nella ### della Repubblica, non è sancita chiaramente la efficacia dichiarativa o costitutiva della dichiarazione di sdemanializzazione e dunque ciò non esclude una sdemanializzazione tacita: per esempio, con riferimento ai beni del demanio naturale è pacificamente ammessa (così come per l'acquisto) anche la perdita di fatto della demanialità a seguito di accadimenti naturali che la P.A. non può che accertare e dichiarare: la vicenda estintiva della demanialità può avvenire per distruzione, deperimento o snaturamento della cosa e quindi per l'intervento di fatti, accadimenti e situazioni del tutto indipendenti dalla volontà della P.A. e per i quali si determina il venir meno delle caratteristiche del bene che il legislatore ha individuato per l'appartenenza al demanio; in questi casi l'amministrazione si limita a prendere atto del mutamento di fatto adottando atti dichiarativi. Se si tratta di beni del demanio artificiale, al contrario, si verte in tema di discrezionalità dell'azione amministrativa e dunque, secondo autorevole opinione, è necessario un provvedimento espresso e formale di cessazione della qualità demaniale con effetto costitutivo. E in mancanza delle formalità previste dalla legge in materia, si ammette la sdemanializzazione “tacita” o di fatto di un bene soltanto in presenza di atti e/o fatti concludenti che evidenzino in maniera inequivocabile la volontà dell'amministrazione di sottrarre il bene alla destinazione pubblica e rinunciare in via definitiva al suo ripristino; si esclude, per quanto interessa nel caso di specie, che possano essere a tal fine sufficienti il prolungato disuso del bene demaniale da parte dell'ente pubblico proprietario ovvero la tolleranza osservata da quest'ultimo rispetto a un'occupazione da parte di privati.
È stato notato come la giurisprudenza abbia sempre interpretato le prescrizioni di cui all'articolo 829 c.c. nel senso che esse si limitino a imporre alla P.A. un mero dovere giuridico finalizzato alla certezza delle situazioni giuridiche, senza stabilire la prevalenza di elementi formali rispetto a quelli di fatto costitutivi della demanialità, a eccezione dei beni appartenenti al demanio marittimo per i quali la perdita della qualità demaniale non può mai avvenire tacitamente (articolo 35 cod. nav.), ma solo con uno specifico provvedimento di carattere costitutivo da parte dell'autorità amministrativa; analogamente accade per i beni del demanio idrico, come sancito dall'articolo 947 c.c. come riformato dall'articolo 4 della legge n. 37/94 recante norme per la tutela ambientale delle aree demaniali dei fiumi, dei torrenti, dei laghi e delle altre acque pubbliche.
La distinzione tra beni naturali e beni artificiali vale anche per i beni patrimoniali indisponibili: i primi sono quelli destinati a un pubblico servizio per natura, ossia in virtù delle loro obiettive caratteristiche, come le miniere, le cave, gli armamenti (articolo 826, comma 2 c.c.), i secondi vi devono essere destinati (articolo 826, comma 3 c.c.).
I beni indisponibili per natura derivano la destinazione alla soddisfazione di interessi pubblici direttamente dalla legge: una volta venuti a esistenza con quelle caratteristiche individuate dal legislatore, e fino al momento della eventuale perdita di detti caratteri, essi sono sottratti alla disponibilità della pubblica amministrazione, senza necessità di alcuna attività giuridica costitutiva. I beni indisponibili per destinazione acquistano la loro qualità con la effettiva e concreta destinazione a un pubblico servizio: giacché nell'ordinamento manca un sistema di procedimenti formali per l'individuazione della destinazione pubblica dei beni, l'effettività del vincolo di destinazione è l'unico mezzo idoneo a rendere i terzi edotti del vincolo medesimo e di conseguenza del regime particolare cui il bene è soggetto: l'atto amministrativo da cui risulta la volontà dell'ente di destinare il bene a una pubblica finalità costituisce elemento di una fattispecie complessa che si completa solo al momento dell'effettiva utilizzazione del bene per il servizio pubblico cui è destinato: «affinché un bene non appartenente al demanio necessario possa rivestire il carattere pubblico proprio dei beni patrimoniali indisponibili perché “destinati ad un pubblico servizio” ai sensi dell'art. 826, comma 3, c.c. deve sussistere un doppio requisito: la manifestazione di volontà dell'ente titolare del diritto reale pubblico, e perciò un atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell'ente di destinare quel determinato bene ad un pubblico servizio, e l'effettiva ed attuale destinazione del bene al pubblico servizio» [Cass., sez. un. n. 14865/06, sez. un. n. 391/99 ; Cass., n. 5867/07].
I beni indisponibili per natura, così come per i beni demaniali, perdono la loro qualità con il verificarsi di situazioni che ne mutano le caratteristiche o ne comportano la distruzione e la P.A. in tal caso dichiara l'intervenuta estinzione del vincolo di destinazione; i beni “artificiali”, destinati a pubbliche finalità dall'autorità amministrativa, cessano di essere tali per determinazione dell'amministrazione: essa può anche desumersi da comportamenti concludenti, ma essi devono apparire univoci e tali da lasciare intendere la volontà dell'ente di dismettere definitivamente il bene dal regime di indisponibilità. Per il passaggio dei beni patrimoniali dalla categoria dei beni indisponibili a quella dei beni disponibili non è dunque richiesto un atto amministrativo come quello di sdemanializzazione previsto dall'articolo 829 c.c., ma è sufficiente un “verbale di dismissione” nel quale si dia atto che il bene sia stato dismesso dall'ente che lo aveva in uso o che non serva più all'uso suddetto e non abbia particolare destinazione. In mancanza di un atto esplicito della P.A. valgono le medesime argomentazioni già sopra ricordate, per cui in giurisprudenza non si esclude il passaggio alla categoria dei beni patrimoniali disponibili per fatti concludenti; e però non è stata ritenuta sufficiente la sospensione dell'uso pubblico, anche per un notevole arco di tempo, ma si è detta necessaria una immutazione irreversibile del bene o una destinazione incompatibile con quella a pubblico servizio e che costituisce il presupposto dell'indisponibilità: «Un bene può cessare di appartenere al patrimonio indisponibile anche in mancanza di un atto formale ed esplicito della pubblica amministrazione in tal senso; ma, a questo fine, non basta un'utilizzazione diversa e, tanto meno, una utilizzazione aggiuntiva rispetto a quella precedente ma occorre, invece, una destinazione incompatibile con quella a pubblico servizio, che funge da presupposto dell'indisponibilità» [Cass., n. 3258/73].
Gli accertamenti di cui sopra appaiono dunque doverosi laddove si discuta di possibile usucapione del bene da parte di un privato, stante l'insegnamento della giurisprudenza di legittimità per cui il conflitto tra l'acquirente a titolo derivativo e quello per usucapione è sempre risolto, nel regime ordinario del codice civile, a favore dell'usucapente, indipendentemente dalla trascrizione della sentenza che accerta l'usucapione e dell'anteriorità della trascrizione di essa o della relativa domanda rispetto alla trascrizione dell'acquisto a titolo derivativo, perché il principio di continuità delle trascrizioni, dettato dall'articolo 2644 c.c. con riferimento agli atti indicati nell'articolo 2643, non risolve il conflitto tra acquisto a titolo originario e acquisto a titolo derivativo, ma unicamente quello tra più acquisti a titolo derivativo dal medesimo dante causa [Cass. n. 2161/05]. Peraltro, e a maggior ragione, tale meccanismo è ritenuto irrilevante con riguardo ai beni pubblici, poiché «la nullità dell'atto di trasferimento di un bene immobile, derivante dall'incommerciabilità del bene medesimo perché demaniale, preclude l'applicabilità del principio della sequenza delle trascrizioni sancito dalla disposizione contenuta nell'art. 2644 c.c.» [Cass. 5894/01].
Nel presente giudizio non solo non è stata raggiunta la prova - il cui onere incombeva sulla parte attrice - della qualità di bene patrimoniale disponibile del terreno in questione, ma vi sono congrui elementi per ritenere al contrario dimostrata, mediante documentazione prodotta, la qualità di bene demaniale eccepita dal convenuto ente.
Dall'istruttoria svolta e in particolare dalla documentazione acquisita, infatti, è evidente che il terreno individuato al foglio 7, particella 5536 (maggior estensione di cui è parte la porzione di cui si chiede l'accertamento dell'avvenuto acquisto a titolo originario) è un terreno pubblico facente parte del demanio civico e assoggettato a uso civico.
Essenziale è in detta prospettiva la decretazione del commissario per gli usi civici prodotta dalla stessa attrice. Il provvedimento del 6 marzo 1976 espone la storia dei terreni posti ai due lati della foce del fiume ### a ridosso del demanio marittimo lungo il litorale del Comune di ### acquitrinosi nella parte più lontana dal mare e sabbiosi con dune e cespugli in quella più vicina, e perciò in epoca più antica letteralmente strappati con grande dedizione e fatica alla natura dei siti («una natura che tende a tornare allo stato primitivo, ad autentico deserto, non appena si verifichi un anche breve abbandono») da parte di contadini originari di ### e dopo di questi in gran parte occupati da “locali” i quali invece vi avevano semplicemente effettuato una irregolare e illegittima edificazione speculativa nella totale indifferenza dell'amministrazione. Quanto ai terreni tra cui era compreso quello occupato da ### più antico “dante causa”, il ### ha riconosciuto la sussistenza dei requisiti per la legittimazione come accertati da una precedente verifica del 1964 e successive ispezioni: vale a dire riporti di terreno, canalizzazioni, trivellazioni di pozzi, impianti di vasche e depositi per attrezzi, ripari frangivento e impianto di vigneti (una situazione, detto tra parentesi, ben diversa da quella attuale con casette abusive di discutibili caratteristiche architettoniche e terreni poco curati che somiglia molto di più a quella stigmatizzata dallo stesso ### per altri appezzamenti).
Non è stata né allegata né provata, per inciso, la classificazione di legge sulla scorta dell'indagine a suo tempo compiuta dall'istruttore perito cui pure l'ordinanza del 6 marzo 1976 fa cenno, se di categoria «A» dell'articolo 11, legge n. 1766/27 (bene ricompreso nel demanio libero dell'ente con uso civico di pascolo e legnatico) o categoria «B» (suolo utilizzabile a coltura agraria, sempre nell'ambito dell'uso civico).
Il tenore dell'ordinanza e la storia dei terreni fanno presumere che essi fossero stati qualificati nell'ambito di questa seconda categoria, avendo riguardo alle colture e alle lavorazioni rilevati dagli accertatori.
È opportuno, a questo punto, ricordare che la presenza di un uso civico su un terreno non ne implica in automatico il carattere demaniale, potendo l'uso gravare anche un suolo privato; e tuttavia sovente gli usi civici gravano (o gravavano) terreni collettivi e pubblici.
Nel presente giudizio, come si è detto, il Comune fa rientrare il terreno nell'ambito del demanio (e in effetti tale qualità sembrerebbe desumibile dalla vicinanza al lido del mare, essendo la fascia interessata posta a ridosso della spiaggia e del demanio marittimo come descritto nel provvedimento già citato del ### per gli ###. ### frequente della coincidenza tra demanio e uso civico ha radici risalenti e fu affermato anche da autorevole dottrina; è stato poi chiarito che l'assimilazione aveva ragioni storiche e derivava dal fatto che l'uso civico nello Stato napoletano era qualificato «demanio», ciò tuttavia non in senso giuridico ma solo su un piano lessicale che prendeva spunto, probabilmente, dall'antico brocardo ubi feuda ibi demania (formula intesa a suo tempo ad affermare che la preesistenza di una popolazione e la costituzione di un feudo erano elementi sufficienti a denotare l'esistenza di un terreno soggetto ad uso civico). Dunque, è oggi abbastanza pacifico che la natura pubblicistica degli usi civici comporta non un'equiparazione, ma solo un avvicinamento del regime dei beni a quello dei beni demaniali: per cui si ritiene che il termine «demanio» costituisca una semplice espressione per qualificarne la disciplina “vincolata”: analoga a quella di cui al già menzionato articolo 823 c.c. per il demanio pubblico, secondo cui i beni che vi sono compresi «sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano».
Ciò posto, dunque, la circostanza che i terreni alla località ### fossero gravati da uso civico non implicherebbe di per sé la loro natura demaniale; e tuttavia l'ordinanza in atti fa riferimento alla avvenuta verifica - su cui si basa - «del demanio di uso civico del Comune di ### e la loro ubicazione a ridosso del demanio marittimo fa ritenere che si tratti di aree demaniali e non semplicemente di aree gravate da usi civici.
È stato affermato, nell'ambito del contenzioso relativo alla liquidazione degli usi civici - dunque ambito diverso da quello oggetto del presente giudizio civile - che «la prova della demanialità civica è spesso […] assai ardua perché si basa su indagini storicodocumentali, talora molto complesse e risalenti nell'arco del tempo, che sono affidate ad un professionista (il perito demaniale) particolarmente esperto in tale materia, in cui spesso occorre ricercare, vagliare ed interpretare antichi documenti per stabilire la demanialità del bene alla luce del più ampio contesto storico, normativo e sociale. ###.C. ha così espresso e ribadito tali concetti: "In tema di procedimento per la liquidazione degli usi civici, la peculiarità della materia, che affonda le sue radici nella storia del feudo e della proprietà collettiva, con conseguente difficoltà, talvolta insuperabile, di rinvenire e procurarsi la prova della demanialità civica di un terreno, giustifica non solo una notevole attenuazione del principio dell'onere della prova ma quel particolare potere del giudice, previsto dalla L. n. 1766 del 1927, art. 29, di disporre anche d'ufficio un'indagine storico - documentale affidata ad un professionista particolarmente esperto nella materia, al fine di colmare le eventuali lacune probatorie in cui siano incorse le parti” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6165 del 16/03/2007; Cass. 2, Sentenza n. 15510 del 06/12/2000)» [Cass. 4753/14]. Ed è stato anche affermato, in tempo un po' più risalente, che «### si assume che una determinata terra […] appartenga al demanio universale di un determinato comune o frazione, la prima indagine da esperire è quella di stabilire se effettivamente la terra medesima faccia parte dell'assunto demanio, il che vai [sic] quanto dire fissare i limiti territoriali del demanio universale, ciò in base al secolare principio, fatto proprio dal vigente ordinamento, secondo cui quando è dimostrato che una terra fa parte di un demanio universale, la demanialità si presume, a meno che non sussista un preciso titolo da cui risulti, rispetto a quella determinata terra, la trasformazione del demanio in allodio e la originaria natura allodiale. Pertanto, nell'ipotesi suddetta, va prima dimostrato e accertato se la terra in oggetto faccia parte di un demanio universale e l'onere della prova spetta al riguardo al comune che agisce per ottenere la reintegrazione della terra nel proprio demanio e assume, sia pure attraverso la suddetta presunzione, la demanialità della terra medesima, solo se la prova di cui sopra sarà raggiunta, si potrà discutere sulla esistenza per quelle stesse terre di trasformazione del demanio in allodio e questa ulteriore prova dovrà essere data dal privato che si oppone alla reintegra ed eccepisce la natura allodiale e la legittimità del suo possesso»; quindi «qualora venga dimostrato che una terra fa parte di un demanio universale, la demanialità si presume, a meno che non sussista un preciso titolo da cui risulti, rispetto a quella determinata terra, la trasformazione del demanio in allodio e la originaria natura allodiale» [Cass. n. 787/63].
Nello speciale processo contemplato dall'articolo 29 della legge n. 1766/27 sulla liquidazione degli usi civici, l'onere della prova della demanialità è posto perciò a carico del comune che chieda di esservi reintegrato e in essa può intervenire il magistrato avvalendosi di ampi poteri e di esperti periti demaniali.
Il luogo del presente processo è però differente e il Comune si trova a resistere rispetto a una domanda di usucapione, riguardo alla quale sussistono gravi e concordanti indizi per ritenere che il suolo sia demaniale e su di esso sia stato gravante un uso civico di categoria B (quanto alla categoria, infatti, assume maggior rilievo l'accertamento delle colture piuttosto che la qualità risultante dalla visura catastale).
Poiché, tuttavia, l'uso civico comporta (allo stesso modo della demanialità) l'impossibilità di commerciare, alienare e perdere il bene per l'usucapione altrui, è opportuno verificare se sia stata offerta idonea prova da parte dell'attrice che il terreno abbia perduto la sua destinazione a uso civico per avvenuta affrancazione.
La legge nazionale vigente (la già citata legge n. 1766/27 e il suo regolamento di attuazione approvato con il R.D. 26 febbraio 1928 n. 332) inserisce i beni e diritti delle popolazioni (proprietà e diritti collettivi), in un regime di gestione a destinazione vincolata e secondo la vocazione (anche oggettiva e storica) dei beni medesimi, distinguendoli nelle due categorie cui si è già fatto riferimento: «### comprendente i patrimoni silvo-pastorali, gestiti a fini produttivi e di conservazione ambientale in base a piani economici di sviluppo; «B» adatti a coltura agraria e ripartibili in quote da assegnarsi in enfiteusi agli aventi diritto. ### 11 della legge comprende nel regime disciplinato sia i “beni collettivi originari”, cioè quelli delle comunità di abitanti organizzate stabilmente in un territorio e le terre acquisite attraverso ogni forma di possesso collettivo [Cass. Un. n. 64/54, n. 51/50], sia i beni assegnati ai comuni, frazioni o associazioni agrarie per effetto delle operazioni di sistemazione delle terre e di liquidazione dei diritti di cui all'articolo 1 della legge. E proprio al fine di risolvere una questione sorta negli ultimi decenni del 1800 sulla natura dei beni della collettività intestati all'ente esponenziale (il Comune) e destinati all'esercizio degli usi civici, il legislatore ha sottoposto a un regime unitario tutti i beni posseduti dagli enti territoriali su cui si esercitano gli usi, includendo in questo modo tra le terre collettive anche quelle gravate da usi e che fossero comunque nel possesso del comune (oltre a beni non di origine civica ma assimilati con leggi speciali come la legge n. 1102/71, c.d. leggemontagna, e le terre acquistate ai sensi dell'articolo 22 per aumentare la massa delle terre da quotizzare).
Caratteristica delle “terre collettive” così inquadrate è stato sempre il particolare regime di indisponibilità e di destinazione vincolata ai bisogni primari della comunità che ad esse fa riferimento, secondo l'articolo 12, comma 2 della legge 1766/27.
Sono state individuate diverse motivazioni storico giuridiche al vincolo di inalienabilità dei patrimoni collettivi delle popolazioni stanziali (nel diritto tedesco, com'è noto, esiste l'istituto della proprietà collettiva): scrittori e giuristi meridionali, tenendo presente il passaggio dalle universitas civium al Comune, hanno fatto riferimento al principio di indisponibilità delle terre pubbliche derivante dalla normazione per i demani comunali (12 dicembre 1816) del ### delle ### e a quella imperiale inserita nel codice giustinianeo; a fronte del tentativo di sistemazione dottrinale, la giurisprudenza ha comunque sempre affermato il principio della indisponibilità dei beni civici [Cass. n. 192/46, in ###, 1946, I, 724, reperibile tramite il web su siti specializzati in materia; Cass. n. 2062/63, n. 1567/55, idem].
Nel vigore della legge n. 1766/27, all'operazione di verifica finalizzata alla liquidazione ed eseguita l'assegnazione secondo l'articolo 11, l'indisponibilità riguarda i soli beni di categoria «A» (articolo 12, comma 2 citato), mentre per i beni produttivi di categoria «B» essa è mantenuta fino alle operazioni di quotizzazione e cessione delle quote in enfiteusi agli aventi diritto. ### a categoria, che viene definita un atto di accertamento costitutivo, il demanio civico perde le sue caratteristiche di terra collettiva quale «compendio di beni in proprietà collettiva di una comunità di abitanti» e si converte, come indicato da autorevole dottrina, in proprietà collettiva a destinazione pubblica o in proprietà privata per le quote di terra a vocazione agraria, giacché le sole terre produttive di categoria B sono destinate alla “privatizzazione” previa la legittimazione o la ripartite in quote. Le terre di categoria A (boschi e pascoli permanenti) sono soggette a un particolare regime a destinazione pubblica, con destinazione vincolata alla produzione e conservazione dell'ambiente e gestione diretta secondo piano, nonché sottoposte ai vincoli di tutela ambientale e paesaggistica. È importante evidenziare che gli usi delle terre di categoria A sono conservati ed esercitati in conformità dei piani economici dei patrimoni forestali e montani e dei regolamenti, senza eccedere i limiti stabiliti dall'articolo 1021 c.c.; le terre di categoria B sono soggette a quotizzazione e concessione delle quote in enfiteusi affrancabile secondo uno specifico procedimento amministrativo, che prevede la possibilità di procedere a opere di sistemazione e trasformazione per la razionale costituzione di unità fondiarie e quindi la concessione delle quote a titolo di enfiteusi, con obbligo per il concessionario di apportare migliorie e alle altre condizioni stabilite nel piano, con pagamento di un canone annuo e la possibilità di affrancazione (articoli 15 e seguenti); prima dell'affrancazione le quote non possono essere divise, alienate né cedute ad alcun titolo (articolo 21) a pena di decadenza della concessione e devoluzione della quota al comune o all'ente (articolo 19).
Il terreno soggetto a uso civico è inalienabile, non usucapibile e immodificabile nella sua destinazione: l'articolo 12, comma 2 vieta a ### e associazioni, senza autorizzazione dell'autorità preposta, di alienare i terreni soggetti a categoria A o mutarne la destinazione; l'articolo 21, ultimo comma, già citato, stabilisce che le unità fondiarie ivi previste «prima dell'affrancazione non potranno essere divise, alienate, o cedute per qualsiasi titolo»; infine l'articolo 9, ultimo comma, dispone che in mancanza di legittimazione le terre vanno restituite al Comune o all'associazione o alla frazione del Comune "a qualunque epoca l'occupazione di esse rimonti": da quest'ultima norma è stata desunta l'imprescrittibilità del diritto di uso civico e l'inapplicabilità dell'usucapione da parte di alcuno.
È stato osservato, però, che nessuna delle ricordate norme prevede espressamente la nullità dell'atto compiuto in contrasto con la relativa prescrizione.
Si è affermato dunque da parte di una dottrina risalente che gli usi civici dovessero essere riguardati come demani; è stato poi chiarito, come si è detto, che questa assimilazione era soltanto di carattere formale e dovuta al fatto che l'uso civico nello Stato napoletano era qualificato, ma soltanto su un piano di stretta formulazione superficiale, demanio. Infatti la giurisprudenza, che in un primo tempo si era accodata a detta assimilazione sulla base del brocardo ubi feuda ibi demania, successivamente ha ritenuto che gli usi civici avessero natura pubblicistica determinante non un'equiparazione, ma un avvicinamento del regime dei beni di uso civico al regime dei beni demaniali.
Diversi sono stati i percorsi mediante i quali la dottrina ha variamente argomentato la ragione della incommerciabilità dei beni ### sui quali sono imposti usi civici (terre in dominio collettivo, la cui negoziazione - di fatto impossibile - avrebbe presupposto l'assenso di tutti i cives; nullità per impossibilità giuridica dell'oggetto in quanto bene demaniale; vendita di cosa altrui, sul presupposto del dominio collettivo sul terreno).
In giurisprudenza è fermo l'orientamento per cui l'atto in violazione delle norme della legge del 1927 sugli usi civici sia nullo per impossibilità dell'oggetto, ciò per l'incommerciabilità del terreno soggetto a uso civico, e afferma che la nullità è assoluta e insanabile in virtù di quanto dispone l'articolo 1418, comma 2 c.c., avendo riguardo alla mancanza nell'oggetto di uno dei requisiti previsti dall'articolo 1345, cioè la possibilità giuridica della negoziazione.
Le leggi fondamentali in materia (n. 1766/27 sul riordinamento degli usi civici e il regolamento di esecuzione n. 332/28) miravano tuttavia non alla sopravvivenza degli usi civici, ma alla loro liquidazione ed erano strutturate in modo da rispettare alcuni principi. In primo luogo, la distinzione di usi civici su terre private e usi civici su terre di dominio della collettività; in secondo luogo, la finalità: gli usi civici su terre private dovevano essere assoggettati a liquidazione, sotto forma o della fissazione di un canone atto a compensare il diritto di uso civico, non più esercitato a favore della popolazione, oppure con il distacco di una parte del terreno, da destinare al Comune (liquidazione con “distacco” o “scorporo”). In via eccezionale sulle provincie già costituenti ex dominio pontificio era stata prevista la c.d. liquidazione invertita: tutto il terreno veniva trasferito alla collettività, mentre a vantaggio del proprietario privato veniva stabilito un canone compensativo. In terzo luogo, gli usi civici su terre di dominio della collettività ("demani civici") dovevano essere regolati in modo che nelle terre utilizzabili come bosco o come pascolo permanente - categoria A -, l'uso medesimo fosse destinato a durare indefinitamente (salva diversa autorizzazione amministrativa per l'alienazione); nelle terre utilizzabili a coltura agraria - categoria B - il fondo agricolo era destinato ad essere quotizzato, cioè ripartito per quote e assegnato alle famiglie di coltivatori diretti a titolo di enfiteusi, con obbligo di migliorie e di pagamento di un canone che poteva essere affrancato: il terreno diveniva “privato” e poteva essere commercializzato soltanto a seguito di affrancazione del canone (pertanto nel tempo questi terreni erano destinati a essere liberati dall'uso civico, in sintonia con le nuove esigenze di ancorare le terre a chi le coltivasse effettivamente e con lo spirito della legge).
Tale inquadramento sistematico vale tuttora e sebbene la finalità della legge fosse quella della “liquidazione” degli usi civici: com'è stato osservato, «la persistente vitalità dell'istituto -nonostante fin dal 1927 se ne fosse prevista appunto la "liquidazione" - poggia ora su di una sua tendenziale mutazione funzionale, all'uso civico essendo cioè riconosciuta una nuova caratterizzazione della sua natura di bene collettivo, in quanto utile anche - se non soprattutto - alla conservazione del bene ambiente e per di più per ciò stesso non soltanto a favore dei singoli appartenenti alla collettività dei fruitori del bene nel singolo contesto territoriale collegato alle possibilità di concreto utilizzo dell'immobile, ma evidentemente alla generalità dei consociati» [Cass. n. 19792/11].
È evidente, dunque, che una cosa è la questione della commerciabilità e la possibilità giuridica di usucapire un bene privato assoggettato a uso civico, altra cosa è quando si discorre di un bene pubblico per di più gravato da uso civico.
Se, infatti, nella prima ipotesi è necessario accertare - sebbene l'operazione non sia semplice - se l'uso civico sia stato liquidato e quindi sia ben possibile alienare il terreno, una volta affrancato, in piena proprietà o, altrimenti, gravato dall'uso civico e il bene può ben essere oggetto di usucapione da parte di terzi; non in ugual modo accade se il bene sia appartenente alla collettività: si parla, infatti, in questo caso di beni collettivi, di terreni cioè appartenenti all'intera collettività, vale a dire agli abitanti del luogo intesi sia come gruppo che come singoli. È stato puntualizzato da autorevole dottrina che la collettività non costituisce un soggetto giuridico e che i beni appartengono ai singoli, che ne sono comproprietari: il Comune o l'associazione agraria cui si fa riferimento non ha dominio sul terreno, ma rappresenta soltanto la comunità locale dei cives e a esercitare per suo conto i poteri e le facoltà relative con l'intervento previsto di organismi pubblici (tempo addietro il Ministero dell'agricoltura e poi, con il decentramento di funzioni, le ### i quali costituiscono nella scala dei pubblici poteri gli enti maggiormente capaci di rappresentare le istanze della popolazione locale, così come anticamente faceva il re rispetto ai feudatari.
Le terre civiche, in questo senso intese, sono incommerciabili; il potere su di esse è imprescrittibile; la loro destinazione è immutabile: in questo senso è l'indirizzo costante della giurisprudenza di legittimità [Cass. n. 1940/04, n. 11265/90], salve alcune fattispecie eccezionali che giustificano la commerciabilità dei beni (e la suscettibilità, per quanto qui interessa, a usucapirne la proprietà): legittimazione, assegnazione a categoria e successiva autorizzazione amministrativa, quotizzazione e affrancazione e, infine, conciliazione.
Ognuna di queste fattispecie si sostanzia in un procedimento che ha come risultato l'emanazione di un provvedimento amministrativo finale, per effetto del quale il bene da proprietà collettiva si trasforma in “allodio”, da bene demaniale si trasforma in bene “allodiale”.
La legittimazione è disciplinata dagli articoli 9 e 10 della legge n. 1766/27 e dagli articoli 25 e 26 del relativo regolamento (R.D. n. 332/28) e presuppone il possesso di terre civiche abusivo; presuppone, inoltre, il possesso del terreno da almeno dieci anni, che la zona occupata non interrompa la continuità del terreno e che l'occupatore vi abbia apportato sostanziali e permanenti miglioramenti di natura stabile e oggettiva, tali da aumentare la capacità di reddito del fondo. Il provvedimento è di natura discrezionale e ciò vuol dire che il soggetto occupatore non vanta alcuna posizione di diritto soggettivo sebbene possieda i requisiti necessari: «il provvedimento di legittimazione delle occupazioni abusive di terre del demanio civico comporta la trasformazione del demanio in allodio e, contestualmente, la nascita, in capo all'occupatore, di un diritto soggettivo perfetto di natura reale sul terreno che ne è oggetto [...] (recentemente, in tema, Cass. ss. uu., 22 maggio 1995 5600). In altri termini in esito al procedimento - avente natura amministrativa - di legittimazione, da un lato, cessa il regime di inalienabilità e imprescrittibilità delle terre che diventano private; […] viene ### emesso un provvedimento di natura concessoria in forza del quale il privato acquista un diritto di natura reale, sul bene (Cass. sez. un. n. 9286/94, n. 6940/93, n. 1750/74: per effetto della legittimazione l'abusivo occupatore diventa titolare di un diritto soggettivo perfetto, con pienezza di facoltà). È ovvio, peraltro, che se a carico dei fondi è imposto il pagamento di un "canone enfiteutico" non esiste un diritto reale di proprietà, ma il diverso diritto di enfiteusi [Cass., n. 64/97]». ### l'interpretazione giurisprudenziale, deve ritenersi che per effetto del provvedimento di legittimazione sorge - ferma restando la proprietà dell'ente esponenziale - in capo all'interessato una posizione giuridica di diritto soggettivo «[…] al quale si riferiscono le indicazioni di cui alla ### n. 2 del 26.02.2006 ed alla risoluzione n. 1/2006 - prot. n. 18288 della ### del ### con specifico riguardo ai profili della trascrizione, quindi dell'opponibilità dello stesso diritto, e del regime fiscale cui è sottoposto il relativo provvedimento di legittimazione». [T.A.R. Latina ###, n. 5/11]. ### a categoria produce una “biforcazione” del regime dei beni collettivi: i boschi e i pascoli - categoria A - continuano ad appartenere alla collettività e l'ente esponenziale di quest'ultima (di solito il Comune, come nel caso di specie) può alienarli solo previa autorizzazione della ### (per la disciplina precedente al decentramento, previa autorizzazione ministeriale); i terreni suscettibili di coltura agraria - categoria B - sono assegnati in enfiteusi e possono, dopo l'affrancazione, essere alienati dall'assegnatario.
Prima dell'assegnazione a categoria, il bene appartiene alla collettività ed è inalienabile e immutabile nella sua destinazione. I giudici costituzionali hanno tuttavia affermato che l'assegnazione a categoria è indispensabile soltanto quando il bene non sia ontologicamente classificabile in una delle due categorie previste dall'articolo 12 della legge, perché in caso contrario essa rappresenta un mero atto di accertamento dichiarativo la cui mancanza produce soltanto un vizio formale dell'autorizzazione ad alienare [C. Cost. n. 221/92].
Con riferimento ai terreni di categoria A (boschi e pascoli), poi, il medesimo articolo 12 stabilisce che i ### e le associazioni non potranno, senza autorizzazione ministeriale (ora autorizzazione regionale) «alienarli o mutarne la destinazione».
La quotizzazione è, invece, la ripartizione dei terreni del demanio civico assegnati a coltura agricola (categoria B) fra i coltivatori diretti del luogo, cui segue l'obbligo di migliorare il fondo e corrispondere un canone: in virtù dell'articolo 13 della legge n. 1766/27 «i terreni indicati alla lettera b dell'art. 11 sono destinati ad essere ripartiti [...] fra le famiglie dei coltivatori diretti del Comune o della frazione»; e, come si è già esposto sopra, l'articolo 19 dispone che «l'assegnazione delle unità fondiarie risultanti dalla ripartizione è fatta a titolo di enfiteusi, con l'obbligo delle migliorie [...]», mentre per l'articolo 21 «non sarà ammessa l'affrancazione se non quando le migliorie saranno state eseguite [...]. Prima dell'affrancazione le unità […] non potranno essere divise, alienate, o cedute per qualsiasi titolo». La quotizzazione determina perciò la creazione di un diritto soggettivo di natura reale, qualificato dal legislatore come enfiteusi e fino all'affrancazione del canone enfiteutico, che presuppone i miglioramenti indicati dalla legge, il bene non è alienabile dal “quotista”.
È orientamento fermo quello per cui il bene assegnato in enfiteusi non cessa di essere "bene demaniale" fino all'affrancazione del canone e dunque prima di allora non può essere oggetto di rapporti giuridici - né, evidentemente, essere usucapito.
La conciliazione, infine, prevista dall'articolo 29 della legge, è considerato un contratto di diritto privato che si instaura tra il singolo e la collettività rappresentata dal Comune, sottoposto alla condizione sospensiva dell'approvazione dell'autorità superiore (prima il commissario per gli usi civici e attualmente la ###; secondo la giurisprudenza, la conciliazione converte il bene demaniale in bene allodiale, in favore del soggetto che vi addiviene; l'effetto della conciliazione omologata è equiparato a quello di una sentenza o di una decisione definitiva, come avviene per la transazione (la conciliazione, nella formulazione della legge, doveva essere omologata dal commissario per gli usi civici e sottoposta ad approvazione ministeriale: autorevole dottrina ritiene che oggi la procedura sia di competenza della sola ### atteso che non sarebbe coerente con il sistema prevedere un controllo dell'ente suddetto rispetto all'operato del commissario, il quale resta un organo dello Stato).
Per quanto si è finora detto, dunque, fino all'assegnazione a categoria il bene è assolutamente incommerciabile e insuscettibile di essere usucapito; dopo l'assegnazione a categoria A (boschi e pascoli) esso è destinato per sempre a restare di proprietà pubblica (salva la compravendita per esigenze di pubblico interesse, adottata dal Comune e approvata dalla ### secondo il meccanismo di cui sopra); dopo l'assegnazione a categoria B (coltura agraria) il bene è posseduto in enfiteusi dal privato, che potrà disporre del relativo diritto reale (“allodio”) solo dopo l'affrancazione del canone; anche prima dell'assegnazione a categoria il bene è commerciabile nell'ipotesi di legittimazione in favore del possessore abusivo, secondo la procedura amministrativa prevista, o a seguito di procedimento di conciliazione. ### il costante orientamento giurisprudenziale [cfr. per tutti Cass. 19792/2011], i beni gravati da uso civico sono da assimilare ai beni demaniali, stante l'espressa previsione legislativa della loro inalienabilità; e questo vale sia per i beni utilizzabili come bosco o pascolo permanente, che per quelli utilizzabili per le colture agrarie. I detti terreni, inalienabili, sono da considerare incommerciabili e insuscettibili di usucapione prima del completamento dei procedimenti di liquidazione o di “sclassificazione”. ### l'impostazione preferibile [ancora Cass. n. 19792/11; Cass. n. 4120/77] non è ammissibile neppure una vendita ad effetti obbligatori o di cosa altrui, né un'anomala «vendita del possesso» [Cass. n. 8528/96], né infine una divisione che comprenda nella massa beni gravati da uso civico [Cass. n. 8693/98].
Solo quando siano attivate e completate le procedure volte a far perdere all'immobile la sua destinazione all'uso civico, sorge in favore del possessore (anche abusivo, come nel caso di specie) un diritto soggettivo di natura privatistica: il bene si affranca dalla soggezione alla proprietà collettiva e il diritto di uso civico degrada, come si è detto e secondo l'interpretazione della giurisprudenza, al rango di diritto affievolito [Cass. n. 6589/83]; il provvedimento commissariale di legittimazione delle occupazioni abusive «conferisce al destinatario la titolarità di un diritto soggettivo perfetto di natura reale sul terreno che ne è oggetto, costituendone titolo legittimo di proprietà e di possesso» [Cass. n. 6940/93], il terreno riacquista piena commerciabilità (Cass. n. 6589/83, n. 1750/74, n. 1234/73] e può perfino essere assoggettato a esecuzione immobiliare [Cass. n. 1750/74].
Al di fuori dei più o meno rigorosi procedimenti di liquidazione dell'uso civico e prima del loro formale completamento, invece, prevale il pubblico interesse che aveva impresso al bene il vincolo dell'uso civico: il discorso si adatta pienamente anche alla questione oggetto del presente giudizio, conducendo a ritenere che i beni (pubblici o collettivi, nel senso ampiamente già illustrato) gravati da uso civico non sono suscettibili di usucapione.
Nella fattispecie in questione, pur non risultando alcun provvedimento amministrativo di classificazione espressa, vi è prova dell'intervento della procedura di legittimazione che sembrerebbe essere addirittura stata seguita dalla affrancazione (tanto si intuisce dal prospetto prodotto dal Comune, in cui la “particella” legittimata in favore del ### riporta un decreto di affrancazione del 13 aprile 2010, repertorio n. 283/10).
Sussistendo in origine la compresenza di un complesso di diritti soggettivi esercitabili uti singulus da ciascuno dei beneficiari dell'uso civico come appartenenti alla collettività dei cives, le situazioni da accertare sono molte e complesse e vanno verificate nel contraddittorio, almeno potenziale, con i singoli compartecipi e per essi con l'ente pubblico territoriale di riferimento individuato dal legislatore. Soltanto la garanzia dei passaggi procedurali già illustrati, volti a verificare l'effettiva perdita delle attitudini per cui il bene era stato destinato all'uso civico, può assicurare alla collettività indistinta dei partecipanti (diversi da chi intenda vantare un diritto individuale pieno ed esclusivo), in quanto tali contitolari del medesimo diritto, il controllo in ordine al venir meno di una situazione di sussistenza di quell'uso civico.
Dunque soltanto a seguito del provvedimento amministrativo, scaturito dalle complesse procedure di verifica, può dirsi che il terreno oggetto di causa può formare oggetto di acquisto della proprietà per usucapione.
Ricorrono in astratto, perciò, nel caso di specie i presupposti per l'acquisto a titolo di usucapione, non impedito dall'essere stato (in passato e fino alla procedura di legittimazione) il terreno gravato da uso civico e avendo la procedura di cui si è detto di fatto condotto a una sua sdemanializzazione tacita.
E tuttavia non può giungersi all'accoglimento della domanda: è ostativa, infatti, la presenza sul suolo di un'unità abitativa totalmente abusiva e non sanabile. ### è stato realizzato, come si evince dalla scrittura privata dell'8 settembre 1990, in epoca prossima al 12 aprile 1983 in cui fu effettuato un sopralluogo della polizia municipale (la domanda di condono, peraltro effettuata ai sensi del D.L. n. 649/94, riporta come epoca un abuso ultimato entro il 15 marzo 1985). Non è mai stata rilasciata concessione in sanatoria ed è opportuno evidenziare che nel caso di specie dagli elementi acquisiti non appaiono sussistere i presupposti amministrativi per l'accoglimento dell'istanza.
Tale dato impone di valutare se possa o meno acquistarsi per usucapione la proprietà di un cespite abusivo, giacché la risposta positiva a questo interrogativo - come si ritiene alla luce delle argomentazioni che seguono - impone di considerare che in base al combinato disposto dell'articolo 1145 c.c. e dell'articolo 40, comma 2, della legge n. 47/85 il bene abusivo non può essere usucapito: l'articolo 1145 dispone infatti che «il possesso delle cose di cui non si può acquistare la proprietà è senza effetto» e l'articolo 40 della legge n. 47/85 prevede la nullità degli atti traslativi della proprietà degli immobili abusivi definiti dai giuristi “di vecchia costruzione”.
È bene ricordare che l'articolo 40 citato si riferisce, in collegamento con l'articolo 31 della medesima legge, a edifici o ad opere ultimate entro l'1 ottobre 1983.
La norma, non abrogata dal testo unico che nel 2001 ha riordinato la materia, così dispone: «Gli atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali, esclusi quelli di costituzione, modificazione ed estinzione di diritti di garanzia o di servitù, relativi ad edifici o loro parti sono nulli e non possono essere rogati se da essi non risultano, per dichiarazione dell'alienante, gli estremi della licenza o della concessione ad edificare o della concessione rilasciata in sanatoria ai sensi dell'art. 31 ovvero se agli stessi non viene allegata la copia per il richiedente della relativa domanda, munita degli estremi dell'avvenuta presentazione, ovvero copia autentica di uno degli esemplari della domanda medesima, munita degli estremi dell'avvenuta presentazione e non siano indicati gli estremi dell'avvenuto versamento delle prime due rate dell'oblazione di cui al sesto comma dell'art. 35. Per le opere iniziate anteriormente al 2 settembre 1967, in luogo degli estremi della licenza edilizia può essere prodotta una dichiarazione sostitutiva di atto notorio, rilasciata dal proprietario o altro avente titolo, ai sensi e per gli effetti dell'art. 4 della legge 4 gennaio 1968, n. 15, attestante che l'opera risulti iniziata in data anteriore al 1° settembre 1967. Tale dichiarazione può essere ricevuta e inserita nello stesso atto, ovvero in documento separato da allegarsi all'atto medesimo.
Se la mancanza delle dichiarazioni o dei documenti, rispettivamente da indicarsi o da allegarsi, non sia dipesa dall'insussistenza della licenza o della concessione o dalla inesistenza della domanda di concessione in sanatoria al tempo in cui gli atti medesimi sono stati stipulati, ovvero dal fatto che la costruzione sia stata iniziata successivamente al 1° settembre 1967, essi possono essere confermati anche da una sola delle parti mediante atto successivo, redatto nella stessa forma del precedente, che contenga la menzione omessa o al quale siano allegate la dichiarazione sostitutiva di atto notorio o la copia della domanda indicate al comma precedente» La previsione della normativa urbanistica, anche con le modifiche che via, via si sono succedute e ben due condoni, ha posto la questione se la nullità prevista per gli atti traslativi sia semplicemente formale, ovvero dipendente dalla mera assenza in atto delle dichiarazioni cd. urbanistiche indipendentemente dalla situazione concreta del bene, oppure sostanziale e cioè comminata direttamente per la qualità «abusiva» del bene medesimo.
La questione è stata oggetto di contrapposte interpretazioni e fino a tempi recenti era prevalsa in giurisprudenza la seconda delle due teorie; finché non è intervenuta una decisione resa a sezioni unite (Cass. n. 8230/19) che ha di nuovo ribaltato l'assetto.
Si evidenzia fin d'ora che per chi scrive tale ultima interpretazione, pur resa a dirimere un asserito contrasto, non è condivisibile. ### articolo 46 del D.P.R. n. 380/01 (###) dispone che «Gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo il 17 marzo 1985, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell'alienante, gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria. Tali disposizioni non si applicano agli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù».
La norma recepisce la formulazione della legge urbanistica n. 47/85 che altrettanto prevedeva all'abrogato articolo 17. ### 40 delle legge n. 47/85, come si è detto, contiene la disciplina con riferimento alle “vecchie” costruzioni le quali possono consistere in costruzioni non assentite perché rientranti in una tipologia che non richiedeva licenza (per esempio, le costruzioni fuori dell'abitato urbano prima dell'entrata in vigore della “legge ponte” 765/67 che, sostituendo l'articolo 31 della prima legge urbanistica n. 1150/42, aveva esteso l'obbligo della licenza edilizia all'intero territorio comunale); costruzioni per cui era stata rilasciata la vecchia licenza edilizia (vale a dire iniziate prima del 30 gennaio 1977); costruzioni assentite con la nuova concessione edilizia (ex legge ### dal 30 gennaio 1977) o, infine, costruzioni abusive per le quali era stata attivata la procedura di condono.
Il legislatore del 1985, comprendendo nell'articolo 40 tutte le dette tipologie di svariate situazioni (e includendo nell'articolo 17 gli atti relativi a costruzioni iniziate dopo la sua entrata in vigore), ha stabilito che ai fini della commerciabilità dei beni fosse sufficiente l'indicazione in atto degli estremi della licenza edilizia (vale a dire del provvedimento autorizzativo rilasciato con questa denominazione prima dell'entrata in vigore della legge n. 10/77 - cd. “Bucalossi” -, che ha introdotto l'istituto della «concessione» edilizia: la terminologia in questo settore, com'è noto, non è neutra ma rispecchia diverse concezioni di valori in ordine alla conformazione della proprietà privata); oppure l'indicazione degli estremi della concessione in sanatoria (per costruzioni iniziate senza autorizzazione ma con attivazione del procedimento di sanatoria); oppure, infine, la dichiarazione (di parte e l'unica in atto resa ai sensi della legge n. 15/68, con la consapevolezza delle conseguenze penali in caso di dichiarazioni false o reticenti) che l'atto avesse a oggetto una costruzione iniziata anteriormente all'1 settembre 1967.
Nell'ipotesi che fosse stato attivato il procedimento di sanatoria, poteva darsi il caso concreto che il procedimento, pur regolarmente attivato, non si fosse ancora concluso al momento della commercializzazione: per queste (non infrequenti) ipotesi, era possibile allegare all'atto traslativo la documentazione prevista, cioè la copia della domanda con le ricevute del versamento delle prime due rate di oblazione.
Com'è noto, dopo l'entrata in vigore della legge n. 47/85, che aveva individuato il punto di partenza del 17 marzo 1985 per l'operatività dell'articolo 17 riguardo alle «nuove» costruzioni, il condono sfociato nella legge n. 662/96 e che ha dilatato i tempi della sanatoria (con correttivi vari per le zone vincolate) fino agli immobili ultimati alla data del 31 dicembre 1993 ha costretto gli interpreti e gli operatori del diritto (in primo luogo i notai) a ritenere applicabile l'articolo 40 in generale per tutte le costruzioni per le quali fosse stata chiesta una sanatoria e l'articolo 17 per le costruzioni fin dall'origine regolarmente assentite.
Il testo unico del 2001 si è occupato solo della seconda categoria (infatti lasciando in vigore l'articolo 40 e abrogando l'articolo 17) e ciò è coerente, come è stato osservato dai migliori studiosi, con l'oggetto della legge e con il dato che il condono è - e dovrebbe essere - un fatto del tutto eccezionale rispetto alla disciplina dell'attività edilizia, dunque limitato nel tempo: per cui, esaurita questa finestra temporale, tutto il resto rientra nella categoria degli «atti a regime», vale a dire di atti il cui oggetto sia un bene realizzato fin dall'origine in virtù di provvedimento autorizzativo. Esaurita la fascia dei condoni, dopo l'entrata in vigore del T.U. 380/01 le costruzioni o sono assentite o possono esserlo successivamente sussistendo il presupposto della “doppia conformità” di cui all'articolo 36, che consente il provvedimento di sanatoria. E negli atti traslativi se la costruzione - successivamente all'1 settembre 1967 - è stata regolarmente assentita, dovrà essere inserita la dichiarazione di parte che ne enuncia gli estremi (e non importa che si tratti di costruzione anteriore o posteriore alla data di entrata in vigore della legge 47/85, di licenza, di concessione, di autorizzazione edilizia e così via); se la costruzione non è stata regolarmente assentita, ai fini della commerciabilità - sempre eccettuate le costruzioni iniziate anteriormente all'1 settembre 1967 - deve sussistere un provvedimento di condono, la cui procedura o sia in corso o sia regolarmente conclusa per provvedimento formale di sanatoria o per silenzio-assenso.
Dunque una costruzione abusiva (se antecedente all'entrata in vigore del testo unico, non condonata nei tempi previsti; e se successiva non sanabile ai sensi dell'articolo 36) non è commerciabile.
Si tratta, com'è stato giustamente osservato a essere precisi con le categorie giuridiche, di una incommerciabilità relativa: il termine, nato tradizionalmente per riferirsi a beni che non potevano in alcun modo formare oggetto di atti giuridici (i beni demaniali), è stato esteso anche in questa materia ma deve essere adoperato soltanto quando i beni immobili costituiscono oggetto di atti traslativi della proprietà o di atti costitutivi o traslativi di diritti reali e non per gli atti a effetti obbligatori, né per quelli a causa di morte, né per quelli posti in essere nell'ambito delle procedure esecutive.
Entrambe le richiamate disposizioni hanno previsto (art. 17, comma 4, e art. 40, comma 3) la possibilità della "conferma" delle comminate nullità, nel caso in cui la mancata indicazione della concessione edilizia o la mancata dichiarazione o il mancato deposito di documenti non fossero dipesi dall'inesistenza, al tempo della stipula, della concessione o della domanda di concessione in sanatoria o, ancora, dal fatto che la costruzione fosse stata iniziata dopo l'1 settembre 1967: è stata prevista quindi la possibilità di conferma degli atti negoziali, anche da una sola delle parti, mediante atto successivo redatto nella stessa forma del precedente e contenente la menzione omessa o al quale siano allegate la dichiarazione sostitutiva di atto notorio o la copia della domanda di concessione in sanatoria.
È opportuno ricordare, a questo punto, che il “disavanzo” temporale tra quanto disponeva la legge n. 47/85 (costruzioni realizzate prima e dopo il 17 marzo 1985) e quanto prevede l'attuale testo unico è stato superato per effetto di due successivi condoni, introdotti nel 1994 (legge n. n. 724/94, articolo 39) e nel 2003 (D.L. n. 269/03 convertito dalla legge n. 326/03, articolo 32, comma 25) per abusi commessi rispettivamente fino al 31 dicembre 1993 e fino al 31 marzo 2003 e in relazione ad alcune tipologie (sia di abusi che di fabbricati). ### edilizio è materia che ha subito nei decenni numerosi interventi e nella direzione - a eccezione dei condoni intervenuti - di una sempre più rafforzata (anche sotto il profilo penale) tutela del territorio. ### è tortuosa e si interseca con quella parallela, sempre più intensa dopo l'avvio dell'applicazione delle norme costituzionali, della concezione del diritto di proprietà come un diritto «conformato» secondo i principi, appunto, costituzionali.
La timidezza della più risalente giurisprudenza nell'applicazione degli effetti della legge urbanistica (n. 1150/42) e della successiva cd. legge ### (n. 10/77) rende evidente la difficoltà, legata a più antiche categorie giuridiche e a tradizionali applicazioni delle norme civilistiche, di sganciare la difformità edilizia dalla sola categoria dell'inadempimento contrattuale. È stata così esclusa l'invalidità dei rapporti che avevano a oggetto costruzioni realizzate in assenza di licenza e la loro incommerciabilità sul convincimento che, in assenza di norma imperativa, non si potesse tirare in ballo il profilo della illiceità dell'oggetto del contratto in quanto il trasferimento della cosa è in sé insuscettibile di essere vagliato sotto il profilo della illiceità, la quale può piuttosto riguardare la produzione del bene e non la sua alienazione [Cass., n. 6466/90, n. 2631/84]; così ritenendo che dall'irregolarità edilizia potesse solo derivare la risoluzione per inadempimento o la domanda di diminuzione del prezzo o l'operatività della garanzia per evizione. In quest'ottica fu guardata anche la disposizione di cui all'articolo 15 della legga n. 10/77 che sancì la nullità degli atti traslativi delle costruzioni realizzate in assenza di concessione se non risultava che l'acquirente ne era a conoscenza (invalidità deducibile solo dal contraente in buona fede ignaro dell'abuso) [cfr. Cass. n. 8685/99, n. 3350/92]. ### che è stata dalla dottrina definita assurda, poiché faceva derivare la liceità del contratto dall'affermazione della consapevolezza della illegalità della costruzione che ne costituiva l'oggetto.
Entrata in vigore la legge n. 47/85, mentre la dottrina pressoché unanime si è assestata sul profilo della nullità sostanziale, la giurisprudenza ha invece enucleato il concetto di «nullità formale» (pur assoluta e rilevabile d'ufficio) per riferirsi agli effetti della mancata dichiarazione e reputandola indipendente dalla situazione reale (se cioè il bene fosse o meno effettivamente abusivo: con il corollario paradossale che la dichiarazione falsa ma presente in atto non sarebbe causa di nullità). È stato affermato, anche in tempi relativamente più recenti, che le dichiarazioni urbanistiche costituiscono requisito formale del contratto, di modo che è l'assenza «che di per sé comporta la nullità dell'atto, a prescindere cioè dalla regolarità dell'immobile che ne costituisce l'oggetto» [Cass. n. 8147/00; conformi da ultimo Cass. n. 14804/17, 16876/13, n. 20258/09 e più risalenti Cass. n. 26970/05, n. 5898/04, n. 5068/01].
Altra parte della giurisprudenza ha seguito invece la via della «nullità sostanziale», esigendo che alla dichiarazione di parte corrispondesse non solo l'esistenza della documentazione richiamata ma anche la situazione reale del bene [Cass. n. 18261/15, n. 25811/14, n. 28194/13, n. 23591/13, n. 20258/09], giacché scopo perseguito dalla norma è di rendere incommerciabili i beni immobili non in regola dal punto di vista urbanistico-edilizio: i giudici hanno affermato che «se lo scopo perseguito dal legislatore era quello di rendere incommerciabili gli immobili non in regola dal punto di vista urbanistico, sarebbe del tutto in contrasto con tale finalità la previsione della nullità degli atti di trasferimento di immobili regolari dal punto di vista urbanistico o per i quali è in corso la pratica per la loro regolarizzazione per motivi meramente formali, consentendo, invece, il valido trasferimento di immobili non regolari, lasciando eventualmente alle parti interessate assumere l'iniziativa sul piano dell'inadempimento contrattuale. Addirittura si potrebbe prospettare la possibilità per le parti di eludere consensualmente lo scopo perseguito dal legislatore, stipulando il contratto e poi immediatamente dopo concludendo una transazione con la quale il compratore rinunzi al diritto a far valere l'inadempimento della controparte. Sempre sotto il primo profilo non si può non considerare che il legislatore, con la L. n. 47 del 1985, ha inteso prevedere un regime più severo di quello previsto dalla L. n. 10 del 1977, art. 15, il quale prevedeva la nullità degli atti giuridici aventi per oggetto unità edilizie costruite in assenza di concessione, ove da essi non risultasse che l'acquirente era a conoscenza della mancata concessione. Tale inasprimento, invece, sarebbe da escludere ove, per gli atti in questione, all'acquirente dovesse essere riconosciuta la sola tutela prevista per l'inadempimento» [così Cass. 23591/13]. È stato inoltre evidenziato che, nonostante la «non perfetta formulazione» della norma, dall'articolo 40 della legge n. 47/85 può desumersi «[…] l'affermazione del principio generale della nullità (di carattere sostanziale) degli atti di trasferimento di immobili non in regola con la normativa urbanistica, cui si aggiunge una nullità (di carattere formale) per gli atti di trasferimento di immobili in regola con la normativa urbanistica o per i quali è in corso la regolarizzazione, ove tali circostanze non risultino dagli atti stessi».
Tale interpretazione si avvale anche della disciplina espressamente prevista dal terzo comma, che consente la conferma dell'atto nel solo caso in cui la mancanza delle dichiarazioni o il deposito dei documenti non siano dipesi dall'insussistenza della licenza o della concessione o dall'inesistenza della domanda di concessione in sanatoria al tempo in cui gli atti medesimi sono stati stipulati: «La previsione che la conferma, la quale sottrae alla sanzione della nullità, può operare solo se la mancanza delle dichiarazioni o dei documenti contemplati non sia dipesa dall'insussistenza della licenza o della concessione o dall'inesistenza della domanda di concessione in sanatoria al tempo in cui gli atti medesimi sono stati stipulati, non avrebbe senso se tali atti fossero ab origine validi» [ancora Cass. n. 23591/13].
A proposito del senso di tale filone interpretativo, perfino la recentissima pronuncia di segno contrario resa a sezioni unite ne evidenzia il «[…] chiaro intento di supportare, anche da un punto di vista schiettamente civilistico, il disvalore espresso dall'ordinamento rispetto al diffuso fenomeno dell'abusivismo edilizio», disvalore che «si coglie non solo in riferimento alle sanzioni penali ed amministrative variamente graduate che reprimono direttamente la commissione di abusi edilizi […], ma, in generale, in relazione alla percezione negativa di ciò che circonda il bene abusivo.
Tanto si desume dalla giurisprudenza che ritiene nulli per illiceità dell'oggetto i contratti d'appalto aventi ad oggetto la costruzione di un immobile senza titolo abilitativo (Cass. n. 7961 del 2016; n. 13969 del 2011 e cfr., pure, n. 3913 del 2009; 2187 del 2011; n. ### del 2018), o non suscettibili di indennizzo espropriativo gli edifici costruiti abusivamente (a meno che, alla data dell'esproprio, sia stata avanzata domanda di sanatoria, pur non ancora scrutinata dalla P.A., ma con favorevole valutazione prognostica, D.P.R. n. 327 del 2001, art. 38, comma 2 bis, Cass. n. 18694 del 2016; n. 10458 del 2017; n. 645 del 2018), ed, in assoluto, in relazione al valore conformativo della proprietà riconosciuto alla disciplina urbanistica (Cass. SU n. 183 del 2001 e successive conformi)» [Cass., sez. un. n. 8230/19].
E tuttavia tale ultima pronuncia avalla oggi una interpretazione strettamente letterale, affermando che «le norme pongono […] un medesimo, specifico, precetto: che nell'atto si dia conto della dichiarazione dell'alienante contenente gli elementi identificativi dei menzionati titoli, mentre la sanzione di nullità e l'impossibilità della stipula sono direttamente connesse all'assenza di siffatta dichiarazione (o allegazione, per le ipotesi di cui all'art. 40). Null'altro»; e attribuisce alla interpretazione sostanzialistica di aver dato corpo a «un'opzione esegetica che ne trascende il significato letterale e che non è, dunque, ossequiosa del fondamentale canone di cui all'art. 12 preleggi, comma 1, che impone all'interprete di attribuire alla legge il senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la loro connessione. La lettera della norma costituisce, infatti, un limite invalicabile dell'interpretazione, che è uno strumento percettivo e recettivo e non anche correttivo o sostitutivo della voluntas legis (cfr. Cass. n. 12144 del 2016), tanto che, in tema di eccesso di potere giurisdizionale riferito all'attività legislativa, queste ### hanno affermato che l'attività interpretativa è, appunto, segnata dal limite di tolleranza ed elasticità del significante testuale (cfr. Cass. S.U. n. 15144 del 2011; n. 27341 del 2014). La tesi della nullità generalizzata non è neppure in linea col criterio di interpretazione teleologica, di cui all'ultima parte dell'art. 12, comma 1, citato, che non consente all'interprete di modificare il significato tecnico giuridico proprio delle espressioni che la compongono, ove ritenga che l'effetto che ne deriva sia inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma è intesa (cfr. Cass. n. 3495 del 1996; n. 9700 del 2004 e giurisprudenza ivi citata) e ciò in quanto la finalità di una norma va, proprio al contrario, individuata in esito all'esegesi del testo oggetto di esame e non già, o al più in via complementare, in funzione dalle finalità ispiratrici del più ampio complesso normativo in cui quel testo è inserito (cfr. Cass. n. 24165 del 2018). […] Inoltre […], la lettera della norma costituisce il limite cui deve arrestarsi, anche, l'interpretazione costituzionalmente orientata dovendo, infatti, esser sollevato l'incidente di costituzionalità ogni qual volta l'opzione ermeneutica supposta conforme a costituzione sia incongrua rispetto al tenore letterale della norma stessa (Corte Cost. sentenze n. 78 del 2012; n. 49 del 2015; n. 36 del 2016 e n. 82 del 2017). Nell'ipotesi in cui l'interpretazione letterale di una norma di legge o […] regolamentare sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l'interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l'esame complessivo del testo, della "mens legis", specie se, attraverso siffatto procedimento, possa pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma sì come inequivocabilmente espressa dal legislatore. Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua (e si appalesi altresì infruttuoso il ricorso al predetto criterio ermeneutico sussidiario), l'elemento letterale e l'intento del legislatore, insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico, sì che il secondo funge da criterio comprimario e funzionale ad ovviare all'equivocità del testo da interpretare, potendo, infine, assumere rilievo prevalente rispetto all'interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui l'effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo, non essendo consentito all'interprete correggere la norma nel significato tecnico proprio delle espressioni che la compongono nell'ipotesi in cui ritenga che tale effetto sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma stessa è intesa» [Cass. sez. un. n. 8230/19 citata; conforme Cass. n. 24165/18 e precedente Cass. n. 5128/01].
Chi scrive ritiene di aderire a una diversa impostazione che si valuta più coerente con l'evoluzione del sistema giuridico nel suo complesso, secondo cui «l'interpretazione della ratio legis, o dello scopo della disposizione o dell'intenzione del legislatore è criterio previsto dall'art. 12 preleggi, quale complemento indefettibile dell'interpretazione letterale o secondo il significato delle parole, non essendo l'interprete libero di fermarsi al solo criterio dell'interpretazione letterale ma essendo vincolato ad attribuire, alle parole utilizzate dal testo della disposizione, il senso che risulta dall'intenzione del legislatore, tra i due criteri non sussistendo alcuna gerarchia ma piena osmosi» [Cass. n. 29834/18]. Non si tratta, cioè, di verificare prima il senso squisitamente letterale delle parole e in un secondo momento, se necessario, l'intenzione del legislatore, ma di compiere uno sforzo unitario in cui i due elementi sono complementari.
Interpretare è “dare un senso” e questa attività non può fermarsi al dato letterale, cioè al mero significato di un'espressione linguistica: sarebbe sterile una interpretazione della norma che si fermasse al solo significato proprio delle parole, così come appare oggi (alla luce dell'evoluzione delle democrazie, dei diritti dell'uomo e del pensiero giuridico, della ### del peso degli ordinamenti sovranazionali e così via) antico ogni riferimento a influssi di positivismo giuridico che appaiono francamente superati. E la norma non può essere interpretata solo facendo applicazione del significato letterale delle parole, in modo avulso dal contesto e dal sistema in cui è inserita. La stessa disposizione di cui all'articolo 12 delle “preleggi” si riferisce alla lettera come «significato proprio delle parole secondo la connessione di esse», termine da cui già può ricavarsi un'indicazione a favore dell'interpretazione sistematica che non escluda, ma anzi valorizzi, il contesto in cui le locuzioni si trovano (contesto inteso da una parte della dottrina non solo come la legge in cui le parole sono inserite, ma all'estremo addirittura come l'insieme dell'intero ordinamento giuridico in vigore). E la stessa «intenzione del legislatore» è stata intesa in senso oggettivo, come canone di ricerca di un significato conforme alla ratio legis e finanche alla ratio iuris. È in questo ambito che deve ritenersi che l'esito della interpretazione non possa poi non subire la “prova della lettera” e cioè pervenire a un significato opposto o assolutamente non contemplato dalla norma, travalicando del tutto il significato iniziale e producendone uno “nuovo” che non trovi fondamento alcuno nell'enunciato normativo oggetto di interpretazione (come sottolineato dai giudici a sezione unite nella pronuncia sopra citata, rammentando però in modo molto più ristretto i confini della ricerca).
Sotto altro aspetto, è vero che «l'univoco tenore della norma segna il confine in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale» [C. Cost n. 78/12], ma è anche vero che gli stessi giudici costituzionali hanno bollato la «interpretazione meramente letterale delle disposizioni normative» come «metodo primitivo» e che solo riaffermare la centralità dell'interpretazione sistematica «[…] consente una ricostruzione coerente dell'ordinamento costituzionale» [C. Cost n. 1/13].
Ora, secondo l'impostazione dei giudici di legittimità, lo scopo che le pronunce fautrici della teoria sostanziale sottolineano avrebbe potuto essere «agevolmente perseguito mediante una semplice previsione di nullità degli atti aventi ad oggetto siffatti immobili o d'incommerciabilità degli stessi», ma così non è stato e al contrario la nullità è stata prevista non in linea generale ma solo per specifici atti tra vivi a effetti reali, sicché la nullità comminata dalle disposizioni in parola non può essere «sussunta nell'orbita della nullità c.d. virtuale di cui all'art. 1418 c.c., comma 1, che presupporrebbe l'esistenza di una norma imperativa ed il generale divieto di stipulazione di atti aventi ad oggetto immobili abusivi al fine di renderli giuridicamente non utilizzabili, e tale divieto […] non trova riscontro» nel testo normativo il quale si limita a specifiche ipotesi di nullità. Tale precisa elencazione impedirebbe dunque di considerare l'ipotesi di illiceità o impossibilità dell'oggetto oppure l'illiceità della prestazione o la causa per contrarietà a norme imperative o al buon costume.
Va rilevato che nel sostenere quest'ultima impostazione si fa riferimento ad altra antica e superata concezione della causa del contratto come «funzione economico sociale»: la sola alla quale si può connettere una affermazione per cui anche se la cosa è illecita la causa del contratto (scambio della cosa verso il corrispettivo del prezzo) resta lecita, giacché l'illiceità riguarda la produzione della cosa e non il suo trasferimento: impostazione che si pone su una linea completamente diversa da tutto l'assetto giurisprudenziale più recente e più avanzato che fa riferimento alla causa concreta del contratto per sostenere la rilevabilità d'ufficio delle nullità [sulla rilevabilità d'ufficio delle nullità, Cass., sez. un. n. 14828/12, 26242/14 e 26243/14 e, da ultimo, n. 12996/16, con l'affermazione rilevante della possibilità di predicare una soluzione unitaria in punto di rilevabilità officiosa della nullità contrattuale].
La lettera delle disposizioni va, piuttosto, esaminata in una prospettiva più larga e che non si nasconda, all'origine dell'introduzione, il problema - all'epoca ben più rilevante - di inserire una sanzione civilistica (la nullità dell'atto) in un contesto normativo prima caratterizzato soltanto dall'esistenza di sanzioni penali e solo più di recente anche da sanzioni amministrative - attualmente “il problema” ha una portata molto più relativa, come si evince per esempio dal dibattito in tema di nullità dei contratti di locazione non registrati (o tardivamente registrati) e all'impatto della norma tributaria quale norma imperativa -.
Il problema di fondo è l'assetto del territorio e concerne le limitazioni che vengono imposte ai privati allo scopo di preservarne la conformazione e garantire che esso sia in linea con la normativa urbanistica (e oggi ambientale, storica, culturale). Le sanzioni penali e amministrative esigono, per avere seria valenza dissuasiva ed efficacia punitiva degli illeciti, adeguata organizzazione e capacità di rapido intervento da parte sia della P.A. che degli organismi inquirenti con la correlativa risposta giudiziaria (che, com'è noto, è in concreto quasi del tutto inefficace considerando i brevi termini di prescrizione degli illeciti penali). ### operativa è stata perciò ottenuta influendo sull'aspetto che immediatamente e direttamente incide sugli interessi del privato e sulla sua attività speculativa: proprio intervenendo su quest'ultima si impedisce che essa sia realizzata e questo è l'aspetto più efficace nel sistema di prevenzione (oltre che di sanzione) dell'abusivismo, esattamente come accade in ambito penalistico con il sistema delle misure di prevenzione patrimoniale nel contrasto alla criminalità organizzata.
Allargando l'ottica interpretativa senza restare sullo sterile piano meramente letterale e linguistico, la sanzione sul piano civile della nullità dell'atto per la illegittimità sostanziale della costruzione si raccorda con i principi di conformazione della proprietà privata derivabili dall'articolo 42 della ### ed è rilevante, inoltre, rammentare il percorso per il quale il legislatore vi è giunto: rammentare, cioè, che prima della nullità dall'articolo 17 della legge 47/85 (ora dall'articolo 46 del D.P.R. n. 380/01) era stato disposto che «gli atti giuridici aventi per oggetto unità edilizie costruite in assenza di concessione sono nulli ove da essi non risulti che l'acquirente era a conoscenza della mancanza della concessione» (articolo 15 della legge n. 10/77).
Vi è stata dunque una progressione da una norma che ancora poneva al centro la quasi totale libertà delle parti, considerando il puro aspetto delle conseguenze privatistiche dell'irregolarità edilizia, a una norma che ha spostato l'asse verso una visuale più ampia e che trascende i puri interessi privati per conseguire un generale interesse pubblico alla tutela del territorio e al contrasto dell'abusivismo e delle condotte che quel territorio abbrutiscono.
Volendo superare il “metodo primitivo”, dunque, non si può eludere di constatare che le scelte linguistiche e letterali del legislatore (che non sempre è perfetto, è vero) nella costruzione delle norme giuridiche sono dettate dalle più diverse considerazioni che all'interprete, il quale non voglia rifugiarsi nella torre eburnea ma restare nella realtà, non possono sfuggire.
E la formulazione della norma risponde a un'esigenza abbastanza evidente: il legislatore, per evitare di bloccare la contrattazione immobiliare, non ha preteso una documentazione oggettiva (rilasciata cioè dalla P.A.), il cui rilascio avrebbe richiesto tempi lunghi, né una documentazione affidata ad accertamenti oggettivi del notaio, pure lunghi nei tempi e in qualche modo lontani dalle usuali sfere di ricerca che a tale professionista si chiedono nell'esercizio dell'attività professionale; il legislatore ha scelto la via più semplice di una documentazione affidata alla dichiarazione di parte.
Quest'ultima, la cui ragione sta nel non ostacolare eccessivamente la negoziazione privata, non si giustifica per se sola (che senso avrebbe prevedere la nullità dell'atto per la sola sua mancanza?) ma in quanto essa rappresenta lo strumento per conseguire l'interesse pubblico alla regolarità urbanistica del bene (e si noti, a tal proposito, che solo l'attestazione della costruzione a un'epoca antecedente all'1 settembre 1967 è imposta sotto la copertura della dichiarazione ai sensi - all'epoca - della legge 15/68).
La legge n. 47/85 prima e ora il testo unico sono impostati e concepiti sull'intento di conseguire la regolarità urbanistica e ambientale (e oltre) dell'attività edilizia privata.
È in questo contesto che il legislatore ha previsto l'atto di conferma per sanare una nullità formale non corrispondente a una mancanza (nullità) sostanziale, privilegiando - com'è stato osservato da un autorevole studio in materia - la realtà sull'apparenza: è questo principio che deve guidare l'interprete, facendogli ritenere che una presenza documentale o una dichiarazione false creerebbero pura apparenza e violando gli interessi concreti perseguiti dalla normativa nel suo insieme. Dalla mancanza sostanziale, dunque, deve farsi discendere la irreparabile e definitiva nullità dell'atto valutando (nella sostanza) la dichiarazione ### di parte, ove resa, come se non fosse stata apposta.
Allora l'enunciazione data da ultimo dai giudici a sezioni unite come argomentazione a favore della nullità formale, per cui il legislatore avrebbe potuto altrimenti raggiungere lo scopo «mediante una semplice previsione di nullità degli atti aventi ad oggetto siffatti immobili o d'incommerciabilità degli stessi» perde di razionalità: per dare corpo a una norma del genere sarebbe stato necessario assicurare di volta in volta l'accertamento preventivo della qualità non abusiva del bene, con tutto il conseguente e prevedibile intralcio alla speditezza della circolazione degli immobili; mentre consentire i trasferimenti sulla scorta della dichiarazione di parte (sanzionando con la nullità sostanziale la sua mancanza in concreto in caso di dichiarazioni false e consentendo la conferma in caso di mancanza puramente formale) la semplifica e consente al tempo stesso, se non la si restringe a una mera asserzione formale, a garantire la sostanzialità dello scopo perseguito dalla normativa urbanistica: rispetto, regolarità e legalità nell'assetto del territorio.
Nemmeno si condividono gli ulteriori argomenti posti dalla citata sentenza, tra cui la scelta di non comminare alcuna sanzione ad altri tipi di atti.
Com'è stato acutamente e autorevolmente osservato, l'esclusione degli atti mortis causa deriva molto semplicemente dal dato che essi non hanno né natura né intento speculativo (ciò che invece nella negoziazione tra vivi di immobili irregolari il legislatore vuole contrastare) perché non può darsi tale natura giuridica a un atto la cui funzione è disciplinare l'attribuzione del proprio patrimonio per effetto della propria morte: il fine speculativo presuppone infatti per definizione logica l'esistenza in vita del soggetto che intende, appunto, speculare e non il suo decesso. Analoga motivazione può darsi alla esclusione dei negozi costitutivi di servitù, i quali tendono a soddisfare esigenze del fondo dominante conservando allo stesso tempo la sua proprietà in capo al titolare e così la garanzia, che non conduce al trasferimento del bene garantito del fondo dominante; mentre la disciplina per le procedure esecutive si pone comunque sull'assetto della doppia conformità e sulla necessità di regolarizzare il bene abusivo.
È opportuno, infine, precisare che non ogni abuso edilizio determina l'incommerciabilità del bene, ma solo quelli classificabili nel novero dell'assenza o della difformità totale o essenziale nei termini indicati oggi dal D.P.R. n. 380/01: soltanto irregolarità di questo tipo, infatti, sono contigue alla interpretazione sistematica di cui si è detto e coerenti con la direzione legislativa.
In presenza di un immobile privo dei requisiti che ne consentano la commerciabilità, analogamente a quanto l'orientamento preferibile valuta in tema di giudizio di divisione, non può che pervenirsi al rigetto della domanda con cui si chiede di dichiarare l'avvenuta usucapione del bene, per l'illiceità e comunque per l'impossibilità giuridica relativa dell'oggetto del giudizio, giacché non può essere consentito all'autorità giudiziaria la produzione di effetti sostanziali vietati all'autonomia privata.
Diversamente opinando, la via giudiziale consentirebbe di aggirare il meccanismo normativo e ottenere per altra via un risultato vietato, quello cioè per cui - come si è detto all'inizio - il bene abusivo non può essere usucapito poiché l'articolo 1145 c.c. dispone che «il possesso delle cose di cui non si può acquistare la proprietà è senza effetto».
Né può aversi pronuncia solo relativamente al suolo, trattandosi di un bene ontologicamente diverso da quello effettivo.
Quanto alla domanda riconvenzionale, va rammentato che il convenuto ha chiesto di «accertare l'esatto adempimento della procedura prevista» e «la verifica del compenso per la liquidazione dei diritti sul fondo gravato di usi civici», senza apportare alcun elemento probatorio al riguardo: eppure la parte pubblica ben avrebbe potuto e dovuto svolgere le proprie verifiche presso i propri uffici, non potendosi demandare la detta attività di accertamento all'opera di un consulente tecnico d'ufficio che conducesse un'attività peritale sostanzialmente esplorativa.
In ragione della soccombenza reciproca e della controversa complessità delle questioni trattate, le spese processuali possono essere interamente compensate. P.Q.M. ### in composizione monocratica, definitivamente pronunciando, così provvede: 1) rigetta la domanda principale; 2) rigetta le domande riconvenzionali; 3) compensa per l'intero le spese di lite. ### 16 luglio 2019 la giudice ###
causa n. 1142/2016 R.G. - Giudice/firmatari: Bianco Carla